Montone è inerpicato tra due colli, a metà strada tra Perugia e Castello, strategicamente posto tra la val Tiberina e la Flaminia. A levante il fiume Carpina, a sud il Tevere, a nord gli Appennini.
A quel tempo conteso tra Città di Castello e Perugia (guelfa) che aveva il potere di nominare il castellano e il Podestà.
Perugia era la seconda (anzi la prima) patria dei Fortebracci, dove possedevano da tempo un bel palazzo nel quartiere di Porta Sant’Angelo, parrocchia di San Donato.
Proprio per questa doppia appartenenza la famiglia era invisa alle famiglie di Montone legate a Città di Castello, in particolare agli Olivi. A seguito di provocazioni degli Olivi al fratello maggiore Carlo, Andrea diciottenne, uccisi in duello due cugini Olivi, è costretto a lasciare Montone per andare nelle Marche presso i Montefeltro, allora impegnati contro Rimini (Malatesta).
Inizia così la carriera di soldato che lo porterà verso un grande destino.
Era di corporatura molto robusta, seppure di statura non eccelsa. Viso scavato, simile a quello di un asceta, naso leggermente aquilino, gli occhi grigi, i tratti inconfondibili della nobiltà e dell’alterigia.
Di cultura classica, la madre lo faceva esercitare nel latino e con un precettore nel diritto, sapeva sempre trovare la parola giusta tanto da farlo apprezzare dai suoi. Di gestualità morbida e elegante, ma nello stesso tempo possente e contenuta, vestiva in modo semplice e tradizionale.
Avrà subito il comando di quindici uomini, un grande riconoscimento per il suo rango.
Da subito si fece valere, notare e rispettare esprimendo un grande carisma naturale.
In battaglia voleva essere sempre in prima fila, dare l’esempio, battendosi senza risparmio, sfidando il destino. Lo chiamavano l’invincibile e presto il suo valore militare gli assicurerà una fama nazionale e grandi guadagni.
Si batté al soldo dei capitani più famosi del tempo quali Bindo da Monopoli, Crasso da Venosa, il Mostarda da Forlì, capitano pontificio. Sotto Alberigo da Barbiano fece grandi progressi, fu fatto conestabile, condottiero e poi comandante. Fu allora che inalberò il vessillo di famiglia, un ariete nero in campo giallo. Sventò un tradimento (pilotato dal Barbiano) nei suoi confronti e sentitosi tradito decise di cambiare registro, acquisendo potere in proprio.
Costruì un suo esercito, dei “Bracceschi” non più di mercenari, ma di uomini che avessero una fede, un ideale, una cittadinanza. Li selezionava personalmente cercando uomini pronti all’obbedienza senza discussione. Pagati con buone fette dei bottini che via, via facevano. Era eccezionale la capacità di adattarsi a ogni situazione, al terreno e alle caratteristiche degli avversari, spostandosi con rapidità. (es. battaglia di S. Egidio - Collestrada).
Ben presto mezza Italia è nelle mani di Braccio, dal Po al mare Ionio, con una buona parte dello stato pontificio, approfittando della latitanza del papa-re mentre tre papi si facevano lotta (siamo intorno al 1410, 1417 fine dello scisma d’occidente, anno di nascita del primo figlio Oddo a Città di Castello) sostenendo gli interessi di Giovanni XXIII (fam. Cossa di Napoli - il concilio di Costanza nel 1415 lo depose) contro gli altri due papi Gregorio XII (fam. Correr di Venezia) e Benedetto XIII (fam. Orsini - papa in Avignone). Braccio è molto religioso, sensibile al misticismo intransigente di San Francesco (spesso si definiva la spada del Poverello di Assisi), ma non accetta il Papa che si interessa dei beni materiali.
Aver favorito Giovanni XXIII contro Ladislao Durazzo, re di Napoli, gli porterà il comando su Bologna. Nel 1416 prese Perugia divenendone signore (battaglia di S. Egidio – Collestrada).
La capacità politica di Braccio fu tesa a convincere la città che il suo avvento era la naturale continuazione del felice periodo comunale. Una buona guida e governo serviva a comporre le discordie (sempre attive fra i Raspanti e i Beccherini), ad affrontare lo stato di crisi, a rilanciare l’economia cittadina. Una forma di tutela e garanzia della cosa pubblica che assicurasse la sopravvivenza degli statuti comunali e degli antichi ordini, insomma una signoria illuminata e necessaria. Disponeva comunque della vita di chiunque avesse provocato tumulti o azioni violente.
Nuove tasse potevano essere imposte solo con il consenso della città e Braccio si impegnò che per il mantenimento del proprio esercito e suo venissero utilizzati i sopravanzi di bilancio.
I Magistrati erano eletti dal popolo, mentre il Podestà e il tesoriere dal Signore.
Occupò con la famiglia, i dignitari e servitori il palazzo grande appoggiato al duomo, sopra le logge che portano ancora il suo nome, con una scala che gareggiava con quella del Comune e della cattedrale, fronteggiando sia il Comune che il palazzo vescovile, quasi a dimostrare l’equilibrio dei poteri. Del palazzo oggi rimangono solo le Logge. Per Perugia fece consolidare le mura, ampliando la cerchia esterna intorno Santa Giuliana, sistemare la piazza del Sopramuro con avveniristiche strutture portanti chiamate briglie (vi si svolgeva il mercato delle erbe e dei generi alimentari) a ridosso del bel palazzo del Capitano del Popolo. Fece restaurare e abbellire la chiesa di San Francesco al Prato, commissionando all’Alberti il grande ciclo del Giudizio Universale. Al lago fece realizzare “la cava del lago” con volte a mattoni, per regolare l’efflusso del lago e controllarne il livello. Sistemò anche il palazzo e la rocca di Montone .
Approfittando di una congiura tramata a Roma per la sede pontificia, occupò la città nel 1417, ma fu cacciato dallo Sforza, che batté poi nel 1420, obbligando alla pace Martino V (Colonna). Dopo la scomunica e la riabilitazione successiva fu nominato vicario di alcuni territori pontifici, fra i quali Perugia. Ma non era che una tregua, dopo una puntata fortunata a Napoli e la rinnovata pacificazione col Papa, nel 1423 Braccio pensò che il momento era maturo per tentare di costruire uno stato italiano, ma mancava l’Abruzzo e per questo si diresse contro l’Aquila, posizione chiave del dominio pontificio.
Martino V riuscì però a coalizzargli contro buona parte d’Italia, e, nonostante la morte improvvisa dello Sforza, e un vantaggio di posizione (controllo dei passi intorno L’Aquila), lasciando che le truppe comandate dal generale Caldora si assestassero senza attaccarle (perché non cavalleresco) contro il parere dei suoi generali (Nicolò Piccinino, Malatesta Baglioni, Ruggero Cane Ranieri, Erasmo da Narni detto Gattamelata), la guerra fu perduta da Braccio ferito da una freccia ”vagante” al collo. Dopo tre giorni (4 giugno 1424) nella tenda di Caldora, rifiutando cibo e acqua e non sottomettendosi al Papa, muore e con lui finisce e si dissolve l’idea di un embrione di stato italiano (con Perugia capitale, forse). Si pensa che Machiavelli, nello scrivere il Principe (golpe et lione) si sia ispirato a questa figura complessa di condottiero.
La sua opera politica si dissolse, le sue case vennero rase al suolo e venne fatta una “damnatio memoriae “ distruggendo gli archivi che lo riguardavano e ogni sua traccia.
Il suo corpo svuotato e calcinato fu portato a Roma da Lodovico Colonna, esposto al pubblico davanti San Pietro, quindi seppellito in terra sconsacrata fuori le mura a San Lorenzo e sopra il tumulo il Papa volle far mettere una colonna di marmo (simbolo della famiglia Colonna) .
La sua scuola militare, con i Bracceschi, sopravvisse.
Nel 1432 Nicolò, valente capitano, figlio della sorella Stella Fortebracci, ottenne da papa Eugenio IV (fam. Condulmer di Venezia, legato della marca di Ancona e di Bologna, cacciò da Roma i Colonna per intrighi, ma dovette rifugiarsi a Firenze e poi Bologna prima di riportare l’ordine pubblico) il permesso di portare le spoglie a Perugia.
La bara preceduta da 50 cavalli neri bardati di nero e 50 fiaccole accese e le insegne dei Fortebracci fu portata a spalle dai consoli e dai dottori emeriti dell’Università a San Francesco al Prato e tumulata. Il frate francescano Angelo del Toscano (generale dei minori, fondatore dell’oratorio di S. Bernardino, capolavoro di Agostino di Duccio - 1457) pronunciò il sermone ricordando che Braccio era aggregato alla confraternita di San Francesco e che a essa aveva lasciato consistenti beni.
Lanfranco Bartocci per Agenzia Stampa Italia