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Cultura. Scipio Slataper e il Mio Carso, 1912 - 2012
(ASI)«Credevamo di sapere gli orrori della guerra per esserceli raffigurati col cervello e col cuore, e in realtà non sapevamo che la nostra esaltazione. Ripensando oggi provo un senso d'ammirazione e insieme di pietà. Era la nostra una cooperazione ideale ad una verità collettiva. Per essa ognuna di noi sarebbe andata coscientemente al patibolo, così come coscientemente istigammo e aiutammo tutti i nostri amici (la parte migliore di noi stesse) ad andare a morire. Giorni d'illusioni folli, fede in un'umanità migliore, che ci faceva esultare e chiedere la morte di milioni di uomini».

Scipio Slataper e il Mio Carso, 1912 - 2012

«Credevamo di sapere gli orrori della guerra per esserceli raffigurati col cervello e col cuore, e in realtà non sapevamo che la nostra esaltazione. Ripensando oggi provo un senso d'ammirazione e insieme di pietà. Era la nostra una cooperazione ideale ad una verità collettiva. Per essa ognuna di noi sarebbe andata coscientemente al patibolo, così come coscientemente istigammo e aiutammo tutti i nostri amici (la parte migliore di noi stesse) ad andare a morire. Giorni d'illusioni folli, fede in un'umanità migliore, che ci faceva esultare e chiedere la morte di milioni di uomini».

Elody Oblath (Stuparich)


«Ma la più bella sorte è stata pure la loro: essere morti per un sogno di gioventù, senza dover trascorrere tutta una lunga vita per scoprire che era un sogno sbagliato».

Alberto Spaini

Questi sono stati i commenti di due sopravvissuti della generazione di Scipio Slataper, ossia Elody Oblath e Alberto Spaini. Probabilmente si tratta di una genia irripetibile, che ha ha visto e raggiunto traguardi  sia per la loro realtà, che per la Patria italiana, mai più raggiungibili. E Scipio Slataper era uno di loro, uomo carismatico, che con l'opera letteraria Il Mio Carso inventava il paesaggio letterario triestino. Non si tratta di un romanzo, perché è pur vero che la giovane letteratura di matrice vociana – lacerbiana non produceva romanzi, bensì di un libro composto, e al contempo discontinuo. L'autore, lo pubblicava a 24 anni, e riassumeva nell'opera tutto se stesso. Non si va molto al di là di una sorta di letteratura diaristica, ove sono presenti taccuini di viaggio o schegge di autobiografia. All'Ascolto, o meglio alla lettura, si presuppone sempre vi sia sempre qualcuno, una sorta di terza persona, che potrebbe essere la donna amata, o l'amico fraterno.

Il triestino Slataper non poteva usare un incipit migliore, se non i tre Vorrei dirvi. Si tratta di pagine quasi tutte concatenate in un unico racconto, dalla confessione di “un povero italiano che cerca d'imbarbarire le sue solitarie preoccupazioni”, al rapporto con gli amici scaltri con i quali non si intende e a tratti se ne distacca, pensando “alla consolazione dei grandi alberi aperti al vento”, oppure “al sole sui colli, a alla prosperosa libertà”. Il proseguo, è un continuo susseguirsi di episodi che ci concatenano l'un l'altro, sino alla discesa sul Monte Kal di Trieste, a conclusione della prima parte. Si arriva alla seconda parte, molto diseguale, dove vi sono motivi poetici e politici, come lo zio garibaldino o il lavoro al Piccolo, il giornale di Trieste. E nella terza parte, finalmente giungiamo al Carso, descrivendo sogni impossibili di stampo mercantilistico, come il legnaiolo in Croazia, oppure le pagine riguardanti Anna/Gioietta, richiamanti le Lettere alle tre amiche.

Il motivo più originale di tutto il Mio Carso, per il quale lo Slataper è stato etichettato “Sigfrido dilettante”, è proprio quello delle origini, tra l'immaginario e la realtà. “Pennadoro, nuovo venuto, tua è la terra del sole, e del vento. Carso, mia patria, scrive, sii benedetto”. Spirituale ed anche ribelle, il giovane Slataper raccontava il Carso come un mistico. E parlava ai fratelli slavi: “Io ti faccio padrone delle grandi campagne sul mare. Lontana è la nostra pianura, ma il mare è ricco e bello. E tu devi esserne il padrone. Perché tu sei slavo, figliolo della nuova razza. Sei venuto nelle terre che nessuno poteva abitare, e le hai coltivate. Hai tolto di mano la rete al pescatore veneziano, e ti sei fatto marinaio, tu figliolo della terra. Sei forte e paziente. Per lunghi secoli ti sputarono in viso la tua schiavitù, ma anche la tua ora è venuta. È tempo che tu sia padrone”. L'autore si imbatte in una natura selvaggia, in un paesaggio sofferente, in una “terra dai mille patimenti”, osservando un atteggiamento completamente diverso dal senso pittorico del paesaggio di Ardengo Soffici, o dalla lieve campagna toscana dal collega vociano Giovanni Papini. Quest'ultimo ammirava una natura “grigia, triste, nuda”, a tratti misera. Lo Slataper invece, invoca un paesaggio tutt'altro che monacale, bensì tendente al primitivo, forse allo stregonesco. E di quest'elemento quasi barbarico, lo Slataper era particolarmente orgoglioso, totalmente privo di analogie con i grandi decadenti, quali Wagner, d'Annunzio, o Nietzsche.

E' questa l'opera maggiore di un ragazzo che all'epoca si poteva definire inquieto, un neo-romantico, inventore anche di problemi, ma afflitto da un estetismo egocentrico e da una personalità tormentata e complessa, forse dilaniata e torbida. Vissuto in una città dove i dissidi tra gruppi etnici hanno sempre caratterizzato una situazione di sospetti, Slataper riusciva a cogliere il rovescio della medaglia, vedendo Trieste, e soprattutto “Il Carso”, quali crogioli di cultura universali. Slataper aveva collocato la questione adriatica nel più ampio quadro europeo, senza evocare scenari catastrofici ma affrontando il problema dell'irredentismo come una questione di tipo culturale. Vi era infatti chi realizzava Trieste come uno snodo europeo, dove lo spirito italiano potesse svolgere la sua funzione storica di propulsore ed integratore della cultura, e chi invece un crogiuolo dove torbidi contenuti della civiltà slavo orientale e della civiltà tedesca potevano amalgamarsi a quella latina in un processo (quasi) formale di chiarificazione.

E Scipio Slataper ricercava la propria identità italiana sulla carta, inventando con il Mio Carso il multiplo paesaggio letterario triestino, che proprio nel 2012 compie cent'anni. E la sua tripartita identità, lo segnerà per sempre, come recita una delle sue lettere a Luisa Carniel (una delle famose “Tre amiche”):

«Tu sai che sono slavo – tedesco – italiano. Sta a sentire. Del sangue slavo ho in me le nostalgie strane, un desiderio di nuovo, di foreste abbandonate; una strumentalità bisognosa di carezze, di compiacimenti; un sognare infinito e senza confini. Del sangue tedesco ho l'ostinazione mulesca, la sicurezza dei miei piani, la noia del dover accettare la discussione, un desiderio di dominazione, di forza. Questi elementi sono fusi nel sangue italiano, che cerca di armonizzarli, di equilibrarli, di farmi diventar “classico”, formato, endecasillabo invece che metro libero».

Sicuramente, Scipio Slataper aveva una concezione agonistica della vita. “Mascalzone, nemico della patria, ragazzaccio orgoglioso, avido di fama”, sono stati gli appellativi che Slataper incassava per le sue Lettere Triestine. Un attacco frontale all'establishment cittadino, apparso con il grido di battaglia di “Trieste non ha tradizioni di coltura”, apparso nella Voce, febbraio 1909.

Polemizzava con l'irredentismo intransigente, perché lo considerava pericoloso per la vita economica della città, e contro l'irredentismo contraddittorio della borghesia commerciale triestina, perché lo considerava moralmente disdicevole, la naturale menzogna dell'anima scissa dei suoi concittadini. Centro autonomo di cooperazione internazionale: questo sarebbe dovuta divenire Trieste, in un meraviglioso quanto vertiginoso il progetto, considerando il clima dominante di esaltazione del sentimento nazionale.

La sua visione, non poteva che trovar logica collaborazione ne La Voce di Giuseppe Prezzolini, lo Sturm und Drang italiano di quell'epoca. E iniziando con tono esplosivo nel 1909, Slataper arriva al 1912, con Il Mio Carso, scoperta poetica dell'anima triestina, dall'etnocentrismo all'identità plurale. “Biondo, altissimo, fascino descrittivo, bello luminoso e pieno di grazia”. La primavera di Slataper dura fino al 3 dicembre del 1915, senza lasciare un legittimo continuatore, e bloccando la creatività di Giani Stuparich, suo erede ma non testimone totale.

La guerra di trincea, nella sua staticità, gli ha anche consentito di correggere le bozze di stampa dell'Ibsen, che usciva postumo. Una pallottola di un soldato dell'Impero, probabilmente slavo, lo coglieva alla gola, mortalmente. “Voleva essere utile alla sua terra, alla sua patria, alla sua umanità”. Bisogna essere completi, affermava.

Scipio Slataper e Giani Stuparich hanno pagato a caro prezzo la loro speranza di veder realizzati gli ideali del Risorgimento e la loro fede in un'Italia liberale. Il primo con la vita, l'altro con la cognizione del dolore. Stuparich in particolare, pagava con la tormentosa domanda intorno al senso e all'essenza della guerra quale evento decisivo della sua esistenza e di tutta la generazione triestina che si radunava attorno proprio al suo capo spirituale: Scipio Slataper.

Valentino Quintana per Agenzia Stampa Italia

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