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Bengasi, un capolavoro del nostro cinema dimenticato

(ASI) Il 5 maggio del 1936, Badoglio entrava da trionfatore in Addis Abeba. Il 9 maggio Mussolini proclamava da quel balcone l'Impero, un ritorno dopo secoli di assenza illuminante i sette colli fatali di Roma. Giusto o sbagliato, l'Italia compiva un'operazione coloniale forse fuori dal tempo, ma seguitissima dal cuore di ogni italiano, talché il consenso toccava l'apice proprio in quel 9 maggio, data che nessun media o giornale nostrano ha oggi il coraggio di ricordare, un po' per classico timore, un po' per quel senso di colpa perseguitante le nostre classi dirigenti.

Un sereno dibattito, a 76 anni di distanza, non guasterebbe sicuramente, per portare in luce meriti e colpe di un'impresa fantastica.

Un capolavoro del Cinema italiano dedicato alle terre dell'Impero, in particolare alla Libia e al Gebel, è sicuramente Bengasi di Augusto Genina. Girato nel 1941, ottenente il massimo premio alla Mostra cinematografica di Venezia l'anno successivo. Ottimo film polemico e anche di propaganda, a settant'anni di distanza risulta completamente misconosciuto, salvo una proiezione nell'anno 2008 per l'emittente televisiva LA7.

Bengasi è un film del tutto particolare. Contiene cioè tutti quegli elementi atti a suscitare nel pubblico pietà e disgusto, amore e odio. Qualcuno potrebbe obiettare, dopo aver visto il film, che il taglio fosse stato troppo netto, i personaggi un po' troppo esemplari: tutti buoni, bravi, generosi e simpatici da una parte, tutti ingenerosi, cattivi e crudeli dall'altra. Tuttavia, è così che deve essere: in un dramma popolare come in un film di propaganda, non c'è altra via da seguire se si vuole esaltare ed accendere gli elementi sentimentali delle platee. Né la polemica, soprattutto quella politica, può avere dubbi o incertezze nel proclamare che tutti i diritti e tutte le virtù siano nostra prerogativa e che tutti i vizi o torti invece siano attribuili al nemico. In sede artistica è un'altra cosa. In tal caso può anche essere valida l'osservazione che formulò Guido Piovene, in un rigoroso e lucido articolo apparso su Primato (la rivista diretta da Giuseppe Bottai) a proposito di Bengasi: «In questo film di elementari contrasti e suggestivo sulla folla, che raggiunge bene i suoi scopi, avrei se mai qualche obiezione da fare da un punto di vista morale. Non tanto la comune obiezione che la crudeltà del nemico vi appare troppo accentuata, quanto che la parte italiana appare nel contrasto fin troppo sentimentale. Genina ha dosato bene, direi che ha dosato da maestro, e per ora queste parole sono forse anche superflue. Ma se si dovesse insistere sopra un'Italia dipinta con questi colori, si sarebbe condotti a trovare migliore un mondo di canaglie, di rapinatori stradali, di pirati, di contrabbandieri e di proterve prostitute, a un mondo troppo fertile di mamme e babbi, di bambini che muoiono, di avemarie, di lacrimose madri contadine che parlano in dialetto veneto e di prostitute che soognano la chiesa della loro infanzia».

A giudicare da tal commento, apparso in una delle principali riviste fasciste dell'epoca, si potrà capire che la critica era accesa quanto lo è oggi. Ma questa è un'altra storia. Ora preme di mettere soprattutto in rilievo il modo, franco e deciso, con il quale l'esperto regista ha condotto la sua polemica e svolto, di conseguenza, il suo racconto. Genina è l'autore, de l'Assedio dell'Alcazar, il cui ricordo ormai è più spento di quello di Bengasi. E di quel suo film a forti contrasti umani e polemici, esaltante la meravigliosa resa di quel manipolo di prodi che difesero strenuamente l'Alcazar dove s'erano rifugiati donne, anziani e bambini. Genina si è ricordato in Bengasi di certe scene, reimpostandole in un certo modo nella nuova opera.

Ma pur imitando se stesso, Genina è riuscito a ripresentarci codeste situazioni, se non come nuove, sotto una luce diversa, quasi più raccolta ed intensa, con un riflesso drammatico e patetico, più netto e profondo. Le scene di folla (l'esodo da Bengasi al momento dell'occupazione inglese, la vita nei rifugi antiaerei, e nelle case sbrecciate dall'aviazione e dall'artiglieria e specialmente l'incontro tra la popolazione rimasta nella città devastata e le truppe liberatrici italo – tedesche) sono tra i migliori brani del film, e tali da non sfigurare affatto con modelli più illustri. E vedete che bel contrasto codeste scene fanno con quelle che ci descrivono la fredda ferocia del crudele e rapace nemico. Nessuna parola di condanna e deplorazione potrebbe avere l'efficacia di quelle immagini, ispirate a scene veramente accadute. Anche un polemista di razza, dotato di fervida immaginazione e padrone di un ricco vocabolario di ingiurie, non riuscirebbe a commuoverci e a sdegnarci quanto queste visioni cinematografiche, ispirate da fatti rigorosamente documentati. In questo senso, ripeto, il film è perfetto e raggiunge sempre lo scopo prefissosi, cioè di muovere odio e sdegno contro il nemico e di esaltare le nostre virtù civili e militari. Deboli, al contrario, mi sembrano le trame sentimentali che affiorano dalla vasta e tragica vicenda: quella ragazza perduta che s'innamora del soldato a cui ha dato rifugio, quel capitano che così disumanamente incolpa la moglie della morte del loro bambino, e perfino l'episodio di quella madre dolente che, dopo averlo tanto cercato, ritrova il figliuolo accecato dallo scoppio di un proiettile e lo riconduce al loro campicello di Barce, alla quieta casetta tra i mandorli in fiore, dove trova il marito ucciso e le povere suppellettili devastate dalla soldataglia nemica. Questo episodio è stato lodato anche da critici sopraffini dell'epoca e di difficile gusto, anche se un pelino di retorica è riscontrabile.

Dell'interpretazione, non si può dire che bene. Giachetti, Nazzari, la De Tasnady, (attrice ungherese dalla bella carriera, operante in Germania, Italia e Francia, scomparsa solo 11 anni fa a novant'anni compiuti), il Notari, il Tamberlani e la Redi e l'esordiente Gentile sono stati interpreti di singolare efficacia e schiettezza. Ma la vera sorpresa del film è Vivi Gioi. Attrice all'epoca giovanissima, impiegata solo in piccole parti, qui dà tutta se stessa. Norvegese da parte di padre, viveva in prossimità di Ponte Vecchio a Firenze. In Bengasi, ha recitato una parte tutta drammatica con perizia ed intelligenza, aggiungendo un tocco di grazia e bellezza all'ammirabile gruppo di quelle nobili ed austere donne raffigurate in quel film. E la dedica finale di questo lavoro è proprio alle donne.

Per intenderci meglio, quest'opera ha trionfato alla Mostra di Venezia, nella quale Augusto Genina, regista ed autore del soggetto e della sceneggiatura ha ricreato per lo schermo l'epopea della città Cirenaica, dall'occupazione britannica alla liberazione (purtroppo provvisoria) delle truppe italo – tedesche. Premiato con la Coppa Mussolini, ha suscitato l'entusiasmo di tutto il pubblico dell'epoca. Raccomando a tutti la scena finale, durante la quale, il Podestà di Bengasi, ritornato al potere dopo che gli inglesi, prima di scappare, avevano minato la città, pronunciava un proclama da brivido: il ripristino, per volontà del re imperatore, della sovranità italiana su Bengasi e provincia. Il re imperatore citato, si sa, non si distinguerà ancora per molto. Se oggi avvenisse il ripristino della sovranità in Italia, anche quelle parole sarebbero magiche. Sempre per la scena finale, dove si vede l'ingresso delle truppe liberatrici, possiamo contare ventimila figuranti, un altro record per l'epoca. Sebbene introvabile, e dimenticato, sarebbe da riscoprire, senza indugio, come un successo del genere meriterebbe.

 

Valentino Quintana per Agenzia Stampa Italia

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