Così, con una decisione presa nella lontana Bruxelles, ciò che era nocivo, non lo è più. Ma non nella realtà, solo sulla carta, quella su cui è stampato il ripensamento dell’Organismo di Governo continentale appunto. Infatti, appena cinque mesi fa, con una precedente Decisione della stessa Commissione del 28/10/2010, la richiesta italiana del febbraio 2010 relativa agli stessi 91 Comuni laziali ( più altri 19 toscani, 8 lombardi, 10 del Trentino Alto Adige e 2 umbri: Orvieto, Castel Giorgio e Castel Viscardo) era stata respinta dalla Commissione con la motivazione che il “valore-limite di 10 mg/l dell’arsenico…mira ad assicurare che le acque destinate al consumo umano possano essere consumate in condizioni di sicurezza nell’intero arco della vita”. “Valori più elevati”, proseguiva il documento, citando orientamenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ed un parere del Comitato Scientifico dei Rischi Sanitarie Ambientali dell’UE, “sono accettabili senza rischi per la salute umana” solo “per un periodo di tempo limitato”e per valori non superiori ai 20 mg/litro. Perciò, veniva respinta l’istanza per innalzare la deroga oltre quella soglia per le acque potabili dei 128 Comuni. La stessa Decisione del 28 ottobre scorso, accompagnava la bocciatura della salubrità dell’acqua dei 128 Comuni con la concessione di un deroga per un altro, nutrito, elenco di città italiane, per soglie inferiori di arsenico, borio e fluoruro, assoggettandola a precise condizioni, quali l’esclusione della deroga per i bambini fino a tre anni; misure di informazione dei cittadini-utenti; un monitoraggio costante dei parametri interessati; e la messa in campo di azioni correttive, sulle quali lo Stato italiano deve riferire annualmente all’Unione.
A partire dal 1998, anno della Direttiva europea 98/83/CE (Drinking Water Directive, DWD) che ha introdotto limiti significativamente più bassi per i parametri della potabilità dell’acqua (per esempio, per l’arsenico, da 50 a 10 mg/litro) l’Italia si è trovata a dover programmare notevoli investimenti per adeguarsi. Ha certamente aiutato questo processo di rientro nella conformità l’accorpamento delle gestioni idriche negli ATO, indotto dalla c.d. Legge Galli, che ha accorpato e creato dimensioni più adeguate nel sistema e nelle strutture di gestione del servizio idrico, prima frammentate, per ragioni storiche, su scala municipalistica. Soprattutto tra il 2003 ed il 2009 si è assistito ad imponenti investimenti per reperire nuove fonti di approvvigionamento idrico e per migliorare i sistemi di trattamento. I casi di non conformità sistematica e la popolazione soggetta alla necessità di deroghe sono diminuiti. Ma il processo è andato avanti in maniera disomogenea nel Bel Paese, tra situazioni di partenza oggettivamente più difficili (in molte zone la composizione del terreno, e quindi delle acque del sottosuolo, è naturalmente ricca degli elementi parametrati) e ritardi colpevoli delle varie amministrazioni pubbliche chiamate ad intervenire.
L’Italia è stato, così, il Paese europeo che, dopo la Direttiva 98/83 ha chiesto il maggior numero di deroghe in materia di potabilità. Non sapendo risolvere i problemi, si cambiano le norme e si perpetua pericolosamente ciò che si dovrebbe e potrebbe tollerare solo per periodi limitati.
Le ultime deroghe sono quelle accolte il 25 marzo, che hanno suscitato non poche perplessità anche tra i Sindaci delle città interessate. Molti dei quali, dopo la Decisione della Commissione Europea di ottobre, avevano già provveduto a emanare ordinanze di divieto dell’uso dell’acqua potabile e, adesso, si vedono indotti a dire ai propri cittadini che, grazie ad una deroga euro-burocratica, torna salubre, come d’incanto, l’acqua vietata qualche mese fa perché dannosa per la salute.
Basterà infatti ricordare che l’esposizione cronica all’arsenico riduce le difese antiossidanti, danneggia gravemente il sistema digestivo e quello nervoso, ed è fattore di rischio, tra gli altri, per il carcinoma della vescica e quello mammario.
Questo si sa bene tanto a Bruxelles come a Roma. Ma si preferisce far finta di ignorarlo troppo spesso e, soprattutto, si cerca di non farlo capire ai cittadini-utenti.