(ASI) Roma – Ancora sangue nelle strade. Ancora morte nelle città europee. In due giorni il terrorismo ha mietuto 15 vittime in Catalogna e 2 in Finlandia.
Dopo i terribili accadimenti sembra di vedere un copione già andato in onda: domande infinite su come gli attentatori siano riusciti nei loro intenti senza che la polizia o i servizi d’intelligence riuscissero a fermarli; gli accorati appelli della politica affinché la lotta al terrorismo diventi un obbiettivo europeo; i messaggi che giungono dai rappresentanti dei governi e delle istituzioni di tutta Europa del tipo: “non ci spaventeranno”; “non gli permetteremo di distruggere la nostra società libera, aperta e tollerante”.
Poi fanno la loro comparsa le analisi, le spiegazioni, che ad ogni attentato uomini della politica, sociologi e intellettuali, ripetono come un mantra. La soluzione per tutti loro va ricercata nel “non alzare i muri”, “in un’azione culturale volta ad una maggiore integrazione”, e in ultimo le parole del Premier italiano, Paolo Gentiloni, dette in un’intervista al quotidiano Il Sussidiario.net prima dei fatti di Barcellona, ma pubblicate in data 19 agosto, ovvero dopo l’attentato, che avvertono che lo Ius Soli è “una riforma di civiltà” – ad essere maliziosi si potrebbe osservare che queste parole non hanno portato molta fortuna. Questo perché? Perché a differenza di quello che gli uomini illustri della politica, dei governi, del mainstream culturale, dicono ad ogni morto per terrorismo, lo Ius Soli e l’immigrazione c’entrano come c’entrano gli attuali flussi migratori.
Come, i terroristi non erano europei? E allora cosa c’entra lo Ius Soli? Ma soprattutto che cosa c’entra la migrazione?
Partiamo per gradi. A Barcellona, a Parigi, a Bruxelles, hanno agito uomini che per il mainstream culturale e politico sono europei perché nati in questo continente o figli di immigrati ma di seconda, terza o quarta generazione, e quindi – secondo questo pensiero – sempre europei. Infatti per questa logica, abbinare il terrorismo con la questione migratoria è del tutto fuorviante, proprio perché gli attentatori sono cittadini dell’Europa e non extracomunitari, né tanto meno uomini venuti coi famigerati “barconi”. Secondo gli uomini dell’establishment politico e culturale la questione migratoria o i figli dell’immigrazione nati nel “Vecchio Continente”, ci dovrebbero far ragionare invece su come queste persone siano figlie di una mancata integrazione, e quindi di come deve essere fatto maggiormente nel campo della tolleranza e dell’inclusività di queste masse che vivono da generazioni in Europa e quindi europee, o che potrebbero diventarlo in futuro. E dunque una risposta adeguata a questa mancanza d’integrazione, secondo i grandi pensatori politici e culturali, è lo “Ius Soli”. Sì, secondo loro, una cittadinanza più facilitata può essere la chiave per aprire finalmente le porte dell’accettazione della nuova identità europea per gli ex-migranti di domani: il tutto basato su un processo culturale che deve iniziare dalle scuole. Però, come avverte Gentiloni, una cittadinanza che abbia con sé i diritti del cittadino ma anche i doveri.
Queste, come detto, sono le solite parole che vengono spese dopo ogni attentato. Nulla è cambiato nel tempo che unisce la strage nella redazione di Charlie Hebdo del gennaio 2015 al nuovo attentato nel viale della Rambla barcellonese. Ma il grande problema è che le certezze che questa retorica racconta, cominciano a vacillare.
I fatti, nella loro tragicità, stanno smentendo una dopo l’altra queste certezze.
Andiamo sempre per gradi. L’immigrazione c’entra perché a compiere questi attentanti non sono francesi, o belgi, o tedeschi, di vera matrice etnica e culturale, ma – come si sa bene – così detti francesi, o belgi, o tedeschi, di seconda terza o quarta generazione: e dunque persone con una storia d’immigrazione alle spalle. Persone particolarmente giovani che, come si era visto con la seconda strage di Parigi del 13 novembre 2015 ed ora venendo a conoscere le identità degli stragisti di Barcellona, erano molto “integrati”. Questi giovani attentatori arabi, ma con la cittadinanza europea, sembravano dei semplici ragazzi come i loro coetanei: benestanti – o comunque con una possibilità di vita dignitosa –, interessati al divertimento e privi di una vita religiosa. E con questo cadono già le prime certezza che vogliono che gli attentatori siano poveri, disadattati, in collera con il mondo per le loro condizioni disagiate, e attaccati morbosamente alle loro culture di origine. Ma con queste scoperte sorgono anche dei punti di riflessione su cui la politica e la cultura mainstream non accenna una parola o, per lo meno, non ne dà a vedere che ci ragioni. Il tutto gira intorno al concetto dell’”identità”: identità nazionale, etnica, culturale e religiosa. Perché da qui parte un dato importante che ci aiuterà a leggere tutto quello che sta accadendo senza i paraocchi del buonismo ideologizzato. Ma prima di arrivare ad analizzare ciò, bisogna rilevare delle pesanti “crepe” in un’altra certezza: quella che sembra vedere il terrorismo slegato dall’attuale fenomeno migratorio. Anis Amri, l’attentatore che guidò un camion contro la folla presente al mercatino natalizio di Berlino il 19 dicembre 2016, era un richiedente asilo giunto in Italia nel 2011 tramite uno dei tanti barconi partiti dalle coste libiche. Rakhmat Akilov, l’attentatore che guidò, anch’egli, un camion contro i passanti nella strada pedonale Drottninggatan a Stoccolma il 7 aprile del 2017, era un richiedente asilo proveniente dall’Uzbekistan. Il nuovo attentatore che in Finlandia ha ucciso a coltellate due persone e ferite 8, tra cui un’italiana, era un richiedente asilo. Si direbbe: “tre indizi fanno una prova”. Una prova che mette a serio rischio la certezza che non ci sia nessuna correlazione tra migrazione e terrorismo. Delle relazioni, purtroppo, cominciano ad esserci, proprio perché è stato troppo alto ed indiscriminato il flusso migratorio che ha investito l’Europa negli ultimi anni e che alla fine, volenti o nolenti, può portare e ha portato con sé dei pericolosi rischi d’”infezione jihadista”.
Ritornando ora al punto dell’identità, un’altra delle innumerevoli certezze “granitiche” del nostro tempo, è quella che pone il fattore dell’identità come un che di superfluo. Di non più necessario, ed anzi retrogrado, in un mondo ormai globalizzato, dove i termini di “Patria”, “radici”, “cultura nazionale”, “religione”, divengono dei corpi vuoti. Invece nel mondo del McDonald's in ogni dove, della musica e della moda che sono le stesse da New York a Roma, della cultura omologata ed omologante, l’identità torna prepotentemente sulla scena della storia. Un fiume che se anche sotterraneo, scorre senza sosta, passa di generazione in generazione anche in maniera calma e nascosta, ma che alla fine crea delle risorgive. Questo è quello che è successo con quei ragazzi che si sono immolati per la jihad. La società annichilita nella quale vive l’Occidente, basata sul progresso e le possibilità di arricchimento personale innalzate a valori, che tanto avevano attratto i loro genitori quel dì che emigrarono dai loro paesi, sono diventati i detonatori della “radicalizzazione” di quei giovani. Una società che per quanto gli dicesse che loro erano francesi, belgi o tedeschi, e che gli ideali genuini erano la “tolleranza”, la “pace”, la “laicità”, la “multiculturalità” e il “multietnicismo”, li ha invece spinti al “richiamo della foresta”: al richiamo dell’identità. Un’identità negata che quando riaffiora può creare dei pericolosi mostri. Quello che sta assistendo terrorizzata tutta l’Europa non è il solo terrorismo islamista, ma ad un vero e proprio ritorno dell’identità con desiderio di conquista: ecco la verità. Sicuramente in molti storceranno il naso a leggere ciò e solerti si alzeranno in piedi ricordando, per l’ennesima volta, che non tutti gli islamici uccidono, che non tutti gli islamici si fanno saltare in aria o guidano camion sulle folle commettendo numerose stragi, che tra le vittime degli attentatori che si immolano per Allah vi sono anche i mussulmani, eccetera eccetera... Si può dire una volta per tutte che queste “giustificazioni”, che avrebbero l’ardire di essere perspicaci, sono orami dei frivoli motivetti? E’ assolutamente vero che non tutti i mussulmani sono terroristi, ma si abbia l’onestà intellettuale di riconoscere che tutti i terroristi, che hanno versato sangue di inermi cittadini europei, erano mussulmani. Ed è sostanzialmente inutile parlare di un islam “moderato” in contrasto di un islam “radicale”, perché sta di fatto che a compiere tali atti siano degli islamici e loro non si pongono il problema di essere più o meno moderati: loro si sentono ritornati in possesso di una loro identità perduta e in nome di questa, contro il progredito occidente imbevuto di Coca-Cola progresso e laicità, sono pronti ad uccidere e ad essere uccisi. Sta di fatto che se anche non si fanno saltare in aria, in molte città della Mitteleuropa, della Francia, del Belgio, della penisola scandinava, e molti altri territori, si stanno creando zone a maggioranza islamica dove vige la “Shari'a”, la legge coranica. Zone, queste, che stanno diventando “Stati nello Stato” e dove la polizia entra difficilmente perché sgradita e in pericolo di finire in mezzo a qualche sparatoria. Zone che stanno diventando il fulcro di un pericolosissimo radicalismo islamico, soprattutto tra le giovani generazione che vi dimorano, e da cui escono gli uomini pronti a combattere in nome dell’Islam – i famosi foreign fighters “europei” che sono andati a combattere in Siria sotto le insegne dell’ISIS e che stanno facendo ritorno in Europa, dicono niente? – e in cui sono nate cellule terroriste con il silenzio connivente degli abitanti di quei posti, o che hanno dato “asilo” a terroristi ricercati: come il caso di Salah Abdeslam, uno dei jihadisti dell’attentato di Parigi del novembre 2015 rimasto vivo e nascostosi per cinque mesi nel quartiere a maggioranza mussulmana di Molenbeek, in Belgio. Uomini e donne che, anche dopo tre o quattro generazioni, non hanno nessuna voglia d’integrarsi, ma che anzi si chiudono sempre più a riccio nella loro cultura e religione originarie: nella loro identità. E che riescono ad essere anche un pericoloso “richiamo” per molti europei, d’origine e cultura, alla ricerca di valori più “forti” di quello che la società occidentale gli propina. Uomini e donne che nonostante non vogliano essere francesi, o belgi, o tedeschi, hanno la cittadinanza di uno Stato europeo in tasca e possono votare. Infatti esiste anche il grave pericolo che alla lunga si possa realmente delineare il quadro descritto dallo scrittore francese Michel Houellebecq nel suo libro Sottomissione: ovvero della creazione di un partito di rappresentanza islamica che possa puntare a vincere le elezioni. Complottismo? In Francia già esiste e si chiama Union des Démocrates Musulmans Français, in Italia si sta parlando della creazione di un “Partito Islamico Italiano”. E a lungo andare a chi crederete che le comunità mussulmane, soprattutto le così dette “radicali”, daranno il voto? Questo ci fa anche capire quanto è pericoloso lo Ius Soli in questo momento storico. A differenza delle sentimentali parole di tolleranza, laicità e multiculturalità dell’establishment politico europeo che avvertono quanto sia una grande questione di “civiltà” la cittadinanza ai figli degli stranieri, non ci si pone il problema che con questo si corre l’estremo pericolo di vederla distrutta la civiltà europea. Come già scritto sopra, queste persone d’etnia diversa, di cultura diversa, di religione diversa da quelle che storicamente hanno composto l’Europa, non si sentono europee. E lo si vuole sapere il perché? Perché non lo sono: ecco il motivo.
E’ necessario che la politica e il mondo della cultura smettano di dare per scontato un aspetto per nulla scontato come quello dell’identità. Bisogna interrogarsi se i tanto richiamati “valori dell’Unione Europea” siano realmente la cura contro i pericolosi risvegli islamisti. Che forse esiste qualcosa di molto più profondo e mobilitante dei meri “diritti civili”, della “democrazia”, della “garanzia di una vita migliore”, sbandierati affannosamente dai rappresentati europei. Quel qualcosa che trova la sua summa nella parola identità e in tutte le sue declinazioni di etnica, nazionale, culturale, religiosa. Bisogna ragionare se questa identità sia una semplice scelta personale o invece un appartenere: e quindi un “essere”.
Questi attentanti, questi spargimenti di sangue europeo, devono dare il coraggio di vedere la realtà per quella che è. Da decenni l’Europa sta inglobando masse e masse di uomini che non si sentono europei e che la storia recente e attuale ci dimostra che non si sentiranno mai tali. Molti esperti parlano di una progressiva “libanizzazione” del continente europeo. Ovvero di una frammentazione del tessuto sociale su base etnica, culturale e religiosa che porta in ultimo a scontri armati; simile a quello che accade quotidianamente nelle zone del Medioriente, dove ormai è normale che ogni giorno dei jihadisti muniti di armi o cinture esplosive, ma anche di semplici coltelli da cucina, compiono attacchi secondo il volere della “Guerra santa”: purtroppo dal 2015 ad oggi tutto questo si sta terribilmente inverando nel territorio europeo. E come risposta a ciò alcuni intellettuali delle “frontiere aperte”, parlano di una necessaria azione culturale che parta dalle scuole insegnando il “miracolo” dell’integrazione, riconoscendo però che per concretizzare questi bei propositi ci vorranno almeno 30/40 anni. E nel frattempo? Si fa vivere un’intera generazione nella paura e nella guerra etnica? Perché questo, purtroppo, sembra aspettarci.
Bisogna ragionare. Bisogna ragionare e chiedersi se questa società multiculturale forse sia solamente una grande utopia, che nel migliore dei casi crea degrado e nel peggiore miete morti. Quanti attentati devono accadere ancora prima che si riesca a porci questi ragionamenti? Quante zone islamizzate e con la Shari'a vigente dovranno crearsi in Europa prima di capire che il mero nascere in una nazione non ti fa automaticamente cittadino di essa? Che l’identità non è un costrutto, una cosuccia che può essere scelta asseconda dei gusti personali? Qualcuno storcerà ancora il naso, ma un giorno forse si arriverà alla conclusione che per essere africano devi essere africano, che per essere asiatico devi essere asiatico, che per essere europeo devi essere europeo: e non solamente su un pezzo di carta chiamato “certificato di cittadinanza”, ma avendo una storia, una cultura e soprattutto un’origine che ti fa essere appartenente a quella data terra. Sembreranno parole dure, sicuramente. Ma questi tempi duri nei quali viviamo devono riformulare le nostre certezze. Le nostre idee del mondo e della società.
Questi tempi devono ridare all’uomo e alla donna europei, la capacità di ragionare altrimenti. Di commuoversi e pensare di fronte all’immagine di quel bambino schiacciato da un maledetto jihadisti a Barcellona: il piccolo Javi Martínez di soli tre anni. Quella immagine dà fastidio? E’ inopportuna? Potrebbe essere accusata di demagogia? Si pensi pure questo. Però, si pensi anche all’immagine del bambino siriano, il tragicamente famoso Alan Kurdi, morto sulle spiagge turche nel tentativo di raggiungerle con un gommone. Il povero piccolo Alan è finito su ogni giornale, su ogni notizia data nelle televisioni. Quel piccolo bambino è stato trasformato in un’immagine della tragedia della migrazione utilizzata da politici e uomini di governo contro chi prova ad affermare il proprio dissenso verso l’immane fenomeno migratorio. E quanti pianti e parole cariche di tragedia sono sciorinate con lo sfondo del bimbo Alan. Si pensi a questo povero bambino ed ora si pensi invece alla totale censura che ha subito l’immagine di Javi vittima del terrorismo islamista. Lui non ha dignità di essere visto? Non merita di essere compianto da tutto il mondo? Per lui niente vignette, quadri o cartelli di protesta come è accaduto con la foto del povero Alan? Pare di no. Pare che anche la morte dei bambini abbia una doppia misura. Pare che anche la morte di alcuni bambini sia troppo scomoda per essere passata nelle televisioni, sui giornali o divenire frasi di monito dei politici e uomini di governo. Signori: questa è l’ipocrisia del nostro tempo.
Questi tempi devono ridare all’Europa un chiaro significato della parola identità. Un’identità europea a cui, forse, solo l’uomo e la donna europei – nell’origine e nella cultura – possono realmente aderirvi e devono ad ogni costo ritornare a sentire propria. La vera rivoluzione culturale tanto auspicata dai politici e dai cultori delle frontiere aperte, deve essere invece un ritorno degli europei alla loro identità: l’unica che possa salvare il Vecchio Continente dalle incessanti spinti di altrui identità. Ribadendo le assolute condanne che devono avere queste terribili stragi, in una cosa sono meritevoli di riconoscimento questi mussulmani che non desiderano integrarsi: di tenere indiscutibilmente alla loro identità. Alle loro tradizioni, alla loro cultura, facendo strame di tutti i messaggi di laicità, tolleranza e mescolamento che il mainstream politico-culturale gli propina incessantemente. Mentre gli europei cresciuti a “pane e tolleranza”, leggendo le fiabe de “il bel mondo laico e multiculturale”, rimangono terrorizzati dalle tremende stragi e si dimenticano le loro radici: i templi dell’epoca Classica, e le chiese del Medioevo: sacrificate sull’altare del mondo della tecnologia, del laicismo e delle frontiere abbattute dalla globalizzazione. Un giorno, forse, si scoprirà che l’unico messaggio “forte” non sarà quello di “non alzare i muri”, ma di riscoprire le proprie radici, l’amore per la propria terra, e di difenderle contro chi le attenta facendo bagni di sangue e contro chi le voglia sminuire a mero “certificato di cittadinanza” o “scelta personale”.
E’ giunta l’ora che queste nostre certezze vengano ridiscusse, prima che arrivi quel giorno in cui i nostri figli ce ne chiedano il conto.
Ebbene sì, questo è il secolo dove le nostre certezze verranno smentite.
Federico Pulcinelli – Agenzia Stampa Italia