Gli scontri tra il Kachin Independence Army (Kia) e i soldati birmani, sono cominciati a giugno del 2011, dopo ben diciassette anni di «cessate il fuoco», quando i leader Kachin si sono rifiutati di abbandonare una postazione strategica vicino ad una diga idroelettrica in fase di costruzione sulla base di un progetto birmano in collaborazione con una società cinese.
«Per assicurare un trasporto agevole e la pace e la stabilità (nello Stato Kachin, ndr) – ha dichiarato in una nota di oggi il presidente Thein Sein -, il governo ha adottato misure militari e difeso le sue posizioni». Nel comunicato viene precisato che «l’esercito è stato attento a non lanciare una grande offensiva». Nelle parole dell’ex generale non si è fatto riferimento ad attacchi aerei e lo stesso governo del Paese aveva inizialmente negato l’uso di caccia ed elicotteri.
Esperti di politica interna dicono che l’escalation di violenza potrebbe essere un segnale di divisione fra i poteri forti del Paese. Di sicuro, nonostante si parli di un nuovo corso birmano, la costituzione garantisce ai militari il 25 per cento dei seggi: un ruolo dominante nel quadro politico della Birmania.
Gli scontri nello Stato Kachin, che in questi giorni si stanno intensificando anche via terra, hanno costretto quasi 100mila persone a lasciare le proprie case nelle zone dei combattimenti. Diverse associazioni umanitarie denunciano problemi relativi ai rifornimenti di cibo e al freddo. Il rischio, secondo gli attivisti di Asia News che sono presenti nella zona degli attacchi, è quello di un isolamento totale della popolazione civile e della «divisione delle comunità attraverso operazioni mirate che prevedono l’abbattimento di ponti, la distruzione di strade e altri collegamenti».
L’attivista Khon Ja, membro del movimento Kachin Peace Network, ha affermato che l’offensiva contro l’etnia Kachin testimonia che «il governo non vuole la pace» ma sta seguendo «le istruzioni della Cina che chiede stabilità nell’area per proteggere i propri interessi». Interessi che negli ultimi tempi si sono allargati a molte grandi multinazionali occidentali pronte a sfruttare le risorse del Paese del sud-est asiatico. In nome del business, tutto è permesso. Guerra compresa.
Fabio Polese – Agenzia Stampa Italia