I congiunti ammessi al risarcimento

(ASI) Per approfondire le difficoltà insorte nel corso degli anni in relazione al novero dei congiunti aventi diritto alla tutela risarcitoria, analizziamo le posizioni che si sono succedute. In merito le posizioni della dottrina e della giurisprudenza di merito non sono sempre state omogenee, in quanto si affermarono due divergenti orientamenti.

Un primo orientamento che, aderendo alla tesi tradizionale, escludeva il diritto del convivente, in particolare il convivente more uxorio, al risarcimento dei danni derivanti dalla morte del de cuius. Tale assunto muoveva dalla considerazione dell’assenza di un vincolo giuridico tra le parti e dalla precarietà del legame stesso.

 All’opposto, una tesi evolutiva considerò risarcibile anche il pregiudizio del convivente a seguito della morte della vittima, laddove si dimostri che sussisteva tra gli stessi una relazione stabile e consolidata, equiparabile al rapporto di coniugio: “appare ovvio come non sia  sufficiente, perché si possa parlare di famiglia di fatto, la semplice coabitazione, dovendosi far riferimento ad una relazione interpersonale, con carattere  di tendenziale stabilità, di natura affettiva e parafamiliare che, come nell’ambito di una qualsiasi famiglia, si esplichi in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale”.

La Corte  di Cassazione chiarì definitivamente come alla figura del coniuge dovesse  indubbiamente equipararsi quella del convivente more uxorio: “non può esservi dubbio che anche  la perdita del convivente more uxorio determina nell’altro una particolare sofferenza, un patema analogo a quello  che si ingenera  nell’ambito della famiglia”.

Sulla scia di tali considerazioni è stata affermata in maniera perentoria la legittimazione attiva del convivente, posto che in base al principio di solidarietà sociale la convivenza assume rilevanza sociale, etica e giuridica in quanto somiglia al rapporto di coniugio.

La Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione (sent. 8976/05) ha però ribadito che il convivente che intende agire per il risarcimento deve però "dimostrare l'esistenza e la portata dell'equilibrio affettivo - patrimoniale instaurato con la medesima, e perciò, per poter essere ravvisato il vulnus ingiusto a tale stato di fatto, deve esser dimostrata l'esistenza e la durata di una comunanza di vita e di affetti, con vicendevole assistenza materiale e morale, non essendo sufficiente a tale fine la prova di una relazione amorosa, per quanto possa esser caratterizzata da serietà di impegno e regolarità di frequentazione nel tempo, perché soltanto la prova della assimilabilità della convivenza di fatto a quella stabilita dal legislatore per i coniugi può legittimare la richiesta di analoga tutela giuridica di fronte ai terzi".

 La Corte ha, altresì, precisato che "quanto poi alla prova di tali elementi strutturali e qualificativi, concreti e riconoscibili all'esterno, presupposti di esistenza della convivenza more uxorio e parametri caratterizzanti la stessa, può esser fornita con qualsiasi mezzo previsto dalla legge, e normalmente con testimoni (articolo 2697 c.c.)”.

 Tale relazione può essere provata anche per esempio mediante il rapporto svolto dall’investigatore privato a seguito di apposita indagine circa la sussistenza del rapporto di convivenza more uxorio,  o mediante la produzione  di certificati anagrafici probanti la coabitazione, di ordini di acquisto aventi la comune intestazione, di fotografie ritraenti i conviventi insieme in feste  e ricorrenze dei parenti o ancora  di corrispondenza epistolare intercorsa negli anni.

Va altresì detto che parte della giurisprudenza negli anni, ha senz’altro ecceduto nel fissare in maniera rigida i contenuti di questa prova, includendovi la durata e la stabilità della convivenza al momento del fatto dannoso.

Vi è da dire che, successivamente, vi sono state tutta una serie di pronunce che hanno ridimensionato progressivamente il requisito della dimostrazione della “durata” e “della stabilità” della convivenza, che va comunque soddisfatto, affermando la sufficienza della prova di  una tendenziale stabilità del rapporto di comunanza di  vita.

Sul punto va specificato che per comunanza di vita non si debba intendere la coabitazione, intesa come convivenza fisica e stabile nella medesima abitazione, ma come dovere di realizzare una piena comunanza di comunione spirituale e di assistenza reciproca.

Francesco Maiorca – Agenzia Stampa Italia

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