Vorrei partire da uno dei tanti drammi che all’inizio creano emozioni e poi vengono dimenticati. Dal terremoto dell’Aquila. Che insieme ad altri abbiamo vissuto e viviamo con partecipazione. Le immagini del 9 aprile 2009 ci hanno impressionato. L’appello della Caritas ci ha subito coinvolto e siamo andati. Andando, abbiamo rifiutato un rapporto preconfezionato su misure adolescenziali e siamo entrati in rapporto con le persone. Per questo siamo ritornati: per restare fedeli all’amicizia, ai doni di fede, speranza e dignità ricevuti. Ma, proprio perché siamo diventati e rimasti partecipi, ci siamo portati dentro anche l’indignazione per l’uso che si è fatto del terremoto. Come è stato documentato dalla magistratura, la notte del terremoto c’è stato chi rideva e pensava agli affari, ora appare anche chiaro dalle indagini giornalistiche pure come Bertolaso conduceva spesso in modo mediatico le sue operazioni e come questo si chiedeva perfino per i funerali delle trecento vittime. L’ambiguità era già evidente per noi che siamo andati, prima che nelle inchieste di magistratura e giornalisti, nelle assenze dei vertici della protezione civile alle assemblee della gente che voleva essere ascoltata sulla emergenza prima e quindi sulla ricostruzione. Indigna questa mancanza di ascolto e ancor più l’uso del dolore. Addolorano anche alcune ambiguità ecclesiali ed ancora di più avere, ogni volta che si ritorna all’Aquila, una percezione diffusa e crescente di abbandono. Turba il fatto che tanto dolore non converta. Una delle immagine più brutte della nostra Italia è stato quel vertice di potenti del G8 con promesse disattese. Che ha condensato quel non affidarsi né a Dio né alle energie migliori che pure c’erano e ci sono: erano e sono i “volontari” o meglio i cittadini e gli uomini autentici, soprattutto erano e sono gli aquilani che hanno con dignità conservato radici e sogni... Luci nel buio certo che movimentano il giudizio e aiutano a sperare in possibilità concrete di piccole rinascite, ma resta pesante e non superata l’immagine brutta dell’Aquila tradita e abbandonata. Che rimanda ad altre immagini. Anche sonore, potremmo dire come lo è la voce roca di Bossi. Che emette suoni di egoismo ottuso, di ottusa secessione dalle sorti comuni. Il sonoro è diventato alto e spesso violento nelle proteste dei “forconi” in Sicilia. Con tanto disagio che trova espressioni purtroppo destinate a restare inefficaci, con tanta gente strumentalizzata. Anche con forme di violenza e negazione della legalità. Anche in questo caso senza reale ascolto e senza reale comprensione di tanto dolore … Ma la questione vera è non essere riusciti ad essere Nord e Sud che progrediscono umanamente, che si ripensano con le proprie diverse ricchezze (come auspicava per esempio Cattaneo nell’Ottocento) e con l’obiettivo della “pubblica felicità”, come aveva teorizzato in modo lungimirante la scuola napoletana del Settecento (perdente rispetto all’economia politica inglese ma oggi prima traccia di un’economia che vuole restare umana). Alle tensioni grandi di Settecento e Ottocento, si sovrappongono oggi – nell’epoca del virtuale – immagini brutte che coprono il bene che pure c’è e che rischiano di accentuare le vie senza uscite dell’antipolitica e del qualunquismo.
Un evento – metafora, due figure opposte, una chiamata per tutti
Mentre brutte immagini coprono il bene e la storia, mentre voci, immagini, parole, sforzi si intrecciano senza poterne avere contezza perché non è ancora ripristinata nel nostro Paese una sana opinione pubblica, l’anno si è aperto con un evento drammatico che rischia di diventare metafora dell’Italia: l’affondamento della nave Costa Concordia. Immagine più che brutta drammatica, accompagnata da difficili ricostruzioni che (comunque saranno definite) mettono in luce un contrasto profondo nella nostra Italia tra figure opposte. Al di là di quello che si accerterà sul comandante della nave e sulla catena di comando nel raccordo con la compagnia, le prima notizie di una sua fuga dalla nave nel momento dei pericolo o le notizie su riti rischiosi accettati in silenzio e usati commercialmente definiscono sufficientemente la figura dell’irresponsabilità. Se evitiamo di lasciarci colpire dallo straordinario mediatico, dobbiamo ammettere che la figura della irresponsabilità si annida nel quotidiano, certo si definisce nelle tragedie e poi si smarrisce tra le molte e inutili parole, ritrovandosi quindi compagna ordinaria di troppi pensieri e scelte dominanti e diffusi. Certo, dall’altra parte c’è la figura di un senso di responsabilità testimoniato dal comandante della guardia costiera. Con la capacità di capire, di restare lucidi, di ordinare! Non eroismo ma dovere, senso del dovere senza il quale sarà naufragio. E pudore, capacità di restare nel suo posto senza accettare lusinghe mediatiche. Non ci interessano molto i particolari, ci interessa anche in questo caso una figura che rimanda ad un tesoro nascosto, forse a un “resto di Israele”, comunque – potremmo dire con Todorov – tra tanto male dominante tale figura rimanda alla «tentazione del bene». Entrambe le figure – comandante della nave e della guardia costiera –, mentre dicono le nostre ambivalenze e le ambivalenze attorno a noi, sembrano chiedere altro. Sembrano chiedere un corpo, corpo che sarà dato da uomini e donne che scelgono, corpo che sarà dato da uomini e donne che nella crisi «non si induriscono ma si lasciano temprare», secondo l’intuizione di Etty Hillesum. Soprattutto le figure come le immagini aspettano un corpo, aspettano una concretezza che aiuti a superare equivoci nei quali è facile nascondersi, per dare alla responsabilità il valore dell’unica scelta che ci lascia veramente umani. Unica base vera, la responsabilità, di una politica che diventa necessaria perché da soli non si può uscire da una crisi grave come quella che stiamo attraversando. Le operazioni di salvataggio delle persone, della ricerca dei dispersi, del tentativo di evitare il disastro ambientale diventano ulteriore immagine e metafora di ciò che occorre: governare e finalizzare i processi! Riscoprendo in questo la sostanza della politica. Laddove governare va di volta in volta declinato secondo i contesti. Mi ha colpito il fatto che Giuseppe Dossetti all’inizio, negli anni della Costituente, pensasse ad una repubblica presidenziale, perché avvertiva come per la ricostruzione nel dopoguerra fosse necessario uno stato efficiente. Poi dopo il berlusconismo è stato uno dei più lucidi interpreti del rischio che correva la democrazia a causa di un mecenatismo impastato di populismo e tale da attentare al patto fondativo della nostra repubblica. Governare i processi diventa la presenza di uno Stato regolatore e non più “facile” erogatore incapace di controllare sperperi. Governare diventa, a tutti i livelli, assicurare i confini senza i quali non ci sono nemmeno mete. E tuttavia abbiamo chiarito come si tratti, non di un governare qualsiasi, ma di un governare finalizzato. Sempre Dossetti chiariva come sia importante la «coscienza del fine». Per questo però ci vuole un uomo che recuperi disciplina e fine. Per questo, come già Platone aveva capito, ci vogliono educazione e legalità, pudore e giustizia, sguardo lungimirante e ancoraggio su terre ferme.
Due luoghi di ancoraggio: la città, l’Europa
Come può contribuire ciascuno di noi? Penso anzitutto non occultando la realtà, rendendosi conto che siamo nella “notte” ed evitando illusioni. Al tempo stesso non lasciandosi travolgere, ma pensando che la notte comunque dovrà finire. Vivendo nel “tempo intermedio” (cosa che d’altronde i cristiani impariamo da Gesù) possiamo capire come la cosa più importante resti la tenacia nel pensare insieme al bene comune e nell’iniziare a realizzarlo nell’ordine delle nostre possibilità. Unendo, potremmo dire, “terra” e “cielo”. Ci sono da questo punto di vista due luoghi che possono essere al tempo stesso “terra” e “cielo” per l’impegno di ciascuno e di tutti. Il primo a portata di … passo concreto è la città. L’altro, come orizzonte ideale, che speriamo a livelli più alti diventi anche concreto, è l’Europa. Quanto alla città, come ricordava il card. Martini salutando Milano alla fine del suo ministero di vescovo, essa permette «in forza della sua complessità localizzata, tutta una serie di relazioni condotte sotto lo sguardo a misura di sguardo, e quindi esposte al ravvicinato controllo etico, e consente all’uomo di affinare tutte le sue capacità. Essa, infatti, è sempre meno un territorio con caratteristiche peculiari, e sempre più un mini-Stato dove si agitano tutti i problemi dell’umano. È perciò una palestra di costruzione politica generale ed esaltazione della politica come attività etica architettonica. E in più ha dalla sua il vantaggio di una tradizione di identità propria. La Città [inoltre] evidenzia le differenze e stimola la politica al suo ruolo di promozione dei diversi, in modo particolare dei più umili fino a che possano raggiungere un’uguaglianza sostanziale. Questo non si realizza con una equidistanza astratta, ma con scelte preferenziali storiche costose». Quanto all’Europa, speriamo che essa resti orizzonte di impegno del governo, ma anche nostro orizzonte ideale. Per come lo coglie Massimo Cacciari: «L’Europa è la terra dove è necessario il tramonto. La filosofia di questa terra asseconda … il tramonto. Ma ora è la Decisione: decidere per il tramonto di tutte le rappresentazioni del Dio affinché il pensare si apra all’eterno Futuro, che ri-guardiamo ri-volgendoci all’Inizio. Ma tale Decisione non è concepibile se non nella terra dell’occasus. Qui soltanto il destino dell’interrogare poteva così avere compimento. E perciò l’Europa che si rifiuta al tramonto, rifiuta la propria stessa essenza. L’Europa che tramontando non si apre all’Adveniens e non ri-chiama a quello ogni linguaggio, tradisce se stessa … non significa strapparsi-via da sé, ma ri-volgersi al proprio stesso fondo, e lì ascoltare-obbedire all’Ultimo, per la cui misura tutti i distinti, in quanto perfettamente distinti, riconoscono la necessità del proprio congetturare interrogante».
Maurilio Assenza
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