(ASI) Recentemente il dibattito trasportistico in Italia si è incentrato sulla decisone del comune di Bologna di trasformare la città in “Zona 30”, ossia di ridurre il limite di velocità da 50km/h a 30km/h nel centro urbano. Tale decisione ha fortemente diviso l’opinione pubblica, fino a giungere ad un intervento diretto del Ministero dei Trasporti.
Da un lato quindi tanti applausi, mentre dall’altro forti perplessità e malumori. Il plauso più grande proviene dalle associazioni dei ciclisti, da quelle ambientaliste e da parte della società civile impegnata in favore di città meno inquinate e più vivibili. Dall’altra parte della barricata una folta schiera di automobilisti, residenti, professionisti, imprenditori e piccole partite iva fino a giungere allo stesso Ministero dei Trasporti che, notizia di questi giorni, ha avviato lo studio di una regolamentazione che renda più difficoltoso la trasformazione di intere città in “Zone 30”.
I favorevoli sostengono l’abbattimento del numero e della gravità degli incidenti, la disincentivazione all’utilizzo dell’automobile in favore di mezzi pubblici e mobilità dolce, ed infine il maggior decoro urbano dato da un supposto minor numero di auto in circolazione a tutto vantaggio della qualità dell’aria e della riduzione di inquinamento acustico e, parimenti, una riappropriazione degli spazi pubblici grazie alla conseguente minor necessità di aree di parcheggio data, appunto, dalla presunta riduzione di auto in circolazione. Argomentazione “Principe” dei sostenitori delle “Zone 30”, il paragone con i trend europei in materia di trasporti cittadini. Ma sarà veramente così? Oppure come al solito siamo di fronte all’italico “scopiazza e datti un tono snocciolando dati e citando l’estero”.
Diciamolo subito: le argomentazioni ambientaliste e della sicurezza repressiva sulle strade non sono ormai più appannaggio della sola sinistra “liberal”. Al contrario, esse si dimostrano trasversali al punto che la già citata “città30” Olbia è guidata da una giunta di centrodestra. Pertanto dividersi tra tifoserie politiche sul tema come si fosse guidati da dogmi indiscutibili semplicemente non ha senso. Detto questo è utile dire che non è in questione l’idea di “Zone 30” e nemmeno di “Città 30”, quanto le modalità di implementazione.
“In Europa fanno così”. Vero, ma sarebbe semplicistico e riduttivo (quando non dannoso) credere che la questione si riduca ad un semplice limite di velocità. In Europa la preparazione alla diminuzione dei limiti di velocità è iniziata ormai da vent’anni. In Europa, prima di rallentare le auto in città si è dapprima provveduto ad offrire valide alternative. Mezzi pubblici, piste ciclabili dedicate, incentivi all’acquisto di bicilette, e abbonamenti ai mezzi pubblici,potenziamento dei mezzi pubblici, interscambio biciletta – treno/metro e politiche per incentivare il trasporto di velocipedi sui mezzi pubblici, sconti sulle tasse, riqualificazioni urbane di interi quartieri. Queste sono state le premesse per l’implementazione dell’abbassamento del limite di velocità. Queste sono state le premesse per ottenere risultati oggettivamente brillanti. Riduzione di inquinamento acustico da 55 dB(a) a meno di 45 dB(a). Riduzione del numero degli incidenti e riduzione soprattutto della mortalità sugli incidenti con un meno 50%. Più dubbia rimane la riduzione dell’inquinamento, in realtà quasi certamente dovuta alla disincentivazione dell’uso dell’auto a favore di mezzi pubblici e mobilità alternative.
E in Italia? In Italia semplicemente il nulla. Abbonamenti ai mezzi pubblici tra i più costosi in Europa con però un indice di efficienza tra i più bassi in Europa occidentale (salvo rare eccezioni). Nessun tipo di incentivo o sconto legato ad una programmazione sostenibile di una simile transizione se non delle iniziative “una tantum”. Basti pensare che, salvo eccezioni geograficamente e temporalmente limitate, il semplice interscambio bicicletta – mezzo pubblico viene visto come una prestazione straordinaria che l’istituzione pubblica locale non intende sobbarcarsi, quasi come fosse un affronto ai cittadini stessi. Pochissime infatti sono state le amministrazioni locali che hanno implementato politiche programmatiche virtuose quali quelle della regione Marche la quale, nel corso dell’estate 2023, mediante un accordo con Trenitalia, ha offerto il trasporto bicicletta gratuito sui treni regionali marchigiani. Per il resto si paga, e si paga pure caro. Dai 2 euro ai 3,50 euro di ricarico, il costo del biglietto regionalesulle brevi tratte può anche raddoppiare in presenza di trasporto bicicletta. Parimenti l’idea di dotare di apposite rastrelliere per biciclette le stazioni ferroviarie, le fermate di autobus, metro e tram, sembra essere un idea che nemmeno sfiora le italiche amministrazioni locali, le quali spesso non riescono a garantire nemmeno una pensilina per riparare i passeggeri dalle intemperie, o uno straccio di marciapiede su cui sostare attendendo l’autobus senza correre il rischio di venire investiti.
Quindi le amministrazioni locali italiane, mediamente, risultano lente, inefficienti, quando non totalmente disinteressate a far nulla più del minimo indispensabile quando si tratta di favorire la transizione da mobilità privata a mobilità sostenibile. Viceversa invece sembrano efficienti, pronte e ricettive sulla questione dei limiti di velocità e soprattutto sulle sanzioni da elevare, tutte a beneficio delle stesse amministrazioni locali. Teoricamente poi in Italia vale la confusa retorica del “i soldi delle multe servono per la sicurezza stradale”. In realtà Comuni, Regioni e Province dovrebbero in ogni caso mettere a bilancio la sicurezza, la manutenzione e la riqualificazione delle nostre strade. Mentre gli incassi derivati dalle sanzioni di superamento dei limiti di velocità dovrebbe rappresentare un “plus” da investire in interventi straordinari. Invece si finisce che per fare l’ordinario in Italia si ha bisogno dello straordinario. Quasi tutti i comuni mettono a bilancio per l’ordinaria manutenzione stradale e per la sicurezza gli introiti derivanti dall’incasso delle multe non ancora effettivamente emesse. In pratica i comuni italiani stilano un bilancio con un obbiettivo di multe da raggiungere più o meno come può fare un’azienda che si pone degli obbiettivi di espansione e di crescita economica per l’anno a venire.
Insomma le “Zone 30” in Europa sono un sintomo di civiltà, di un investimento e di una programmazione costante. In Italia invece sono un vero e proprio affare consumato sulla pelle dei cittadini a suon di green washing, e slogan sulla sicurezza e la vivibilità delle città. Il tutto giocato con il più classico dei “Dividi et Impera” per cui la questione viene posta come disputa tra i “cattivi”, cioè gli automobilisti, ed i “buoni”, cioè chi già adesso non usa l’auto, e che quindi diviene spesso letteralmente un alibi per le amministrazioni locali che possono assolversi così dai rispettivi peccati in materia.
Cenusa Alexandru Rares- Agenzia Stampa Italia