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(ASI) I violenti disordini di Roma, provocati non da un'esigua minoranza di esagitati, come i mass media hanno cercato invano di farci credere, le centinaia di manifestazioni in tutto il mondo, compresa anche New York, la  Mecca del capitalismo e dell'alta finanza, attestano la crisi ormai irreversibile della democrazia liberale che appare sempre più un sistema allo sbando e senza sbocchi.


Le cause della crisi, al di là della protesta e del disagio sempre più diffusi,  vanno ricercate non solo nel fallimento del sistema liberista che fa il paio con quello del marxismo negli anni ottanta, ma anche nella sfiducia della gente nella politica politicante, non al servizio dei cittadini ma di interessi sempre più manifestamente oligarchici. La sempre minore affluenza alle urne in occasione delle scadenze elettorali, il gap partecipativo della gente comune alle forme della democrazia parlamentare, la degenerazione naturale e sistemica del partitismo, le leggi elettorali aggiustate ad hoc per il mantenimento del potere con trucchi quali la soglia di sbarramento, i premio di maggioranza, la cancellazione della preferenza,, il bipolarismo quanto mai artificioso e limitativo delle scelte, la calata nella politica di schiere interminabili di peones, una marmaglia di livello culturale appena superiore all'analfabetismo che è andata  ad occupare posti chiave, la corruzione diffusa, l'asservimento della politica ai trust e alle lobbies economico-finanziarie, sono  i segnali che il sistema non va più, non convince più, è finalmente  moribondo.

Questo, mentre i cosiddetti indignati, latori di una protesta giusta ma privi di un progetto alternativo credibile, non si rendono conto che è proprio la stessa democrazia, alleata di ferro del capitalismo e del liberismo ad essere in discussione, sembra dar più che ragione a chi nella storia  europea in un passato non così remoto, intese, con energia e determinazione,  porre un freno allo strapotere delle banche che al di là di ogni considerazione di utilità e convenienza sociale, improntavano la gestione del denaro all'usura e alla speculazione. Fu proprio la nazionalizzazione delle holding bancarie nei primi anni trenta a salvare l'economia italiana in un momento di gravi turbolenze internazionali. Oggi dunque  si riaffaccia prepotente sulla scena, al di là delle contingenze e degli anatemi strumentali, la centralità di un pensiero forte che, ricco di progettualità, appare l'unico pronto ad osare un percorso di reale uscita dal vicolo cieco in cui le vestali interessate della democrazia liberale e parlamentare hanno cacciato metà del pianeta. Chi sa guardare in profondità non potrà non prenderne la dovuta coscienza.

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