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Risposta di Radio Italia dell’IRIB all’articolo del quotidiano La Stampa: l’Iran non è la terra di nessuno

(ASI) Come unico mezzo di informazione in lingua italiana dell’Iran, paese chiamato in causa dagli Stati Uniti con gravi accuse, sentiamo che parlare è nostro diritto. Soprattutto perchè l’Iran non è una “terra di nessuno” sulla quale chiunque possa scrivere e insinuare falsità ed essere sicuro che non ci sarà nessuno a dare nemmeno una risposta.

Ecco che vogliamo riflettere un pò, insieme ai lettori, sull’articolo del professor Vittorio Emanuele Parsi, pubblicato sul sito della Stampa, il 14 Ottobre, intitolato “L’Iran gli usa e la trappola della provocazione perfetta”.

Intanto ci sembra giusto dire che “Usa” andrebbe scritto maiuscolo e che dopo Iran ci vorrebbe una virgola, ma passiamo al sodo.

In questo articolo “l’esperto” della Stampa sostiene che l’Iran avrebbe volutamente programmato un attentato contro l’ambasciatore saudita e si sarebbe fatto scoprire, sempre volutamente, per provocare gli Usa e poi, dinanzi ad un loro mancato intervento militare, far vedere al mondo la propria potenza.

Nel ragionamento complicato e difficilmente reggente di Parsi, l’Iran avrebbe tentato questo atto folle perchè la primavera araba avrebbe fatto registrare sviluppi pericolosi per Teheran.

Ma ecco alcune domande.

1) Quale paese dotato di un minimo di buon senso, per dare dimostrazione di potenza, si farebbe volutamente scoprire? Quantomai era più ragionevole se effettuasse un attentato senza farsi prendere con le mani nel sacco. Ma nell’analisi dello stesso Parsi, all’inizio, si ammette che l’Iran era sicuro che la cosa sarebbe stata scoperta. Farsi scoprire, è più segnale di impotenza, che potenza.

2) In 32 anni di vita della Repubblica Islamica dell’Iran mai un attentato in qualsiasi parte del mondo è stato organizzato da Teheran; le accuse ci sono state in diversi casi ma mai nulla è stato provato. L’Iran non ha usato il metodo degli attentati (ammesso che metodo si possa chiamare) nemmeno quando era aggredito dall’Iraq negli anni ’80, quando l’Occidente vendeva vergognosamente a Saddam armi chimiche. Per quale motivo dovrebbe farlo adesso?

3) L’Iran è così potente che nemmeno un giornale in una nazione come l’Italia può scrivere qualcosa senza che la risposta arrivi da Teheran. I servizi segreti di Teheran, o la forza al Quds, non sono un gruppo di ragazzetti sprovveduti che facciano affidamento ad un venditore di auto fallito con doppia cittadinanza irano-americana negli Usa e ad un trafficante di droga messicano per una operazione del genere. Dire che lo hanno fatto non è solo una offesa ad una forza rispettata in tutto il mondo per la sua efficienza, ma una offesa all’intelligenza dell’opinione pubblica mondiale.

Ricordiamo che l’intelligence iraniana ha arrestato su un aereo di linea tra Emirati e Asia centrale il capo del gruppo terroristico Rigi, sostenuto dagli Usa, senza che egli possa nemmeno accorgersene.

Per non parlare del lavoro svolto alle frontiere dell’Iran, dove gruppi terroristici finanziati e sostenuti da Usa e Israele, vedi Pjak, MKO, Rigi ed ec… cercano di creare instabilità.

4) Ma la questione più clamorosa e stupefacente dell’articolo è che reputa gli Usa vincitori della Primavera araba e l’Iran perdente di tutto ciò.

Insomma, secondo La Stampa, che in teoria si considera un quotidiano degno di questo nome, la caduta di un dittatore filo-americano e filo-israeliano (Mubarak è candidato al premio di uomo dell’anno in Israele nel 2011), sarebbe stata a favore degli Usa e a scapito dell’Iran.

In altre parole il crollo di un regime anti-islamico come quello di Ben Ali in Tunisia, che proibiva persino la preghiera, non è a favore della Repubblica Islamica.

Le rivoluzioni in Yemen e Bahrain, che gli Usa stanno cercando di soffocare a tutti i costi, con sostegno mediatico e militare (tramite l’Arabia Saudita) ai regimi locali, sarebbe a scapito dell’Iran e a favore degli Usa.

Siamo davvero sorpresi da tutta questa perspicacia nell’analisi dei fatti del Medioriente.

5) Non e' l'Iran ad essere in difficolta'. Una nazione con una popolazione giovane, che nonostante le dure e insensate sanzioni ha l'economia piu' forte e stabile del Medioriente, che ha la tecnologia nucleare, che padroneggia ad arte la nanotecnologia, che e' all'avanguardia nell'ingegneria aerospaziale e ha lanciato con propri mezzi i suoi satelliti, che ha clonato per la prima volta animali da pascolo, che ha un tasso di crescita economico da record, che ha sempre piu' successi nella scienza, nello sport, nella societa'...per quale motivo al mondo dovrebbe compiere azioni folli e poi andare a colpire l'Arabia Saudita. Un qualcosa di assolutamente insensato, anche perche' migliaia di pellegrini iraniani sono sempre a Mecca e Medina per il pellegrinaggio islamico.

6) L'altra questione e' che se "giustizia" ha un significato evidentemente cio' che ne deducono i governanti Usa e' molto diverso dal concetto che abbiamo noi per la parola. Insomma, se tu arresti un tale che sostiene di essere ingaggiato da un governo (un pregiudicato tra l'altro), cio' basta per lanciare accuse gravissime e a livello pubblico e internazionale contro un'altro Stato. Quale altra prova hanno gli americani per le loro accuse oltre alle affermazioni (estratte tra l'altro dopo 12 giorni di interrogatori senza sosta e quindi lasciamo immaginare in quali condizioni) della persona arrestata? Sin da ora lo si puo' dire con sicurezza: nulla.

 Come conclusione dobbiamo dire che…

La verità è che gli Usa sono perdenti al cento per cento della primavera araba. Stanno perdendo velocemente gli alleati nella regione e presto, dovranno lasciare la basi militari nella zona. Un Egitto forte e glorioso, uno Yemen libero, un Bahrain che sia espressione della volontà del suo popolo, non potrà più essere una base per i loro militari.

Gli Usa, sono messi nella peggiore situazione dalla loro nascita, anche perchè oltre al totale sfascio in politica estera, sono al collasso anche sul piano interno. Una economia che produce 2.2 mila miliardi di dollari e ne consuma 3.8, e che ha già un debito oltre i 10 mila miliardi, non ha speranze per il futuro.

L’unica cosa che si ritrovano in mano gli Usa, e questo bisogna riconoscerlo da buoni analisti, è la forza militare, l’unica cosa in cui sono superiori rispetto al resto del mondo.

Qual’è dunque la strategia degli Usa? Bravi, avete indovinato: usare questa supremazia militare per fare soldi e poter controllare il mondo.

Ma per far valere la legge della giungla c’è bisogno delle guerre. E come si avviano le guerre? Ce l’ha insegnato l’11 Settembre: le guerre si avviano con delle scuse, che forse anni più in là risultano grandi bugie (come le armi di distruzione di massa in Iraq) ma l’importante è che funzionino. Con le guerre si può occupare e dominare il territorio dei paesi che non sono disposti a sottomettersi all’impero e si può mettere in moto l’industria militare, quella farmaceutica, quella edile (per le diverse ricostruzioni post-belliche) e quella dei contractors privati sulla sicurezza come la Blackwater. Ultima ma forse la più importante, l’industria del petrolio e del gas e guarda caso i paesi che gli Usa hanno attaccato o minacciano di attaccare, compreso il nostro Iran, sono tra i principali produttori di petrolio.

Alla fine, sottolineamo di comprendere umanamente che se Parsi scrivesse in maniera differente, considerate le lobby a cui si rifà il quotidiano La Stampa (e ha capito chi doveva capire) l’articolo non gli verrebbe stampato, ma certo, non bisogna dimenticare, che la gente ha pure il diritto di sapere.

Davood Abbasi


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Per completezza dell'informazione vi riportiamo anche l'articolo apparso sulla stampa.it il 14/10/2011   testo integrale:  http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9317

L'Iran gli usa e la trappola  della provocazione perfetta  

VITTORIO EMANUELE PARSI

Eliminare l’ambasciatore saudita a Washington senza essere presi con le mani nel sacco era un’ipotesi talmente irrealistica che nessuno a Teheran può averla presa seriamente in considerazione. Egualmente impossibile era ritenere che i mandanti non sarebbero stati identificati. Il solo dubbio che poteva sussistere era semmai se la scoperta del complotto e dei suoi mandanti sarebbe avvenuta prima o dopo la realizzazione dell’attentato. Allora per quale motivo Teheran avrebbe scelto una simile strategia apparentemente «suicida»? Credo che la risposta vada proprio cercata a partire da quest’ultimo aggettivo: suicida, perché solo facendo ricorso alla razionalità che guida gli attentatori suicidi è possibile comprendere la logica tutt’altro che irrazionale che ha guidato le mosse di Teheran. L’obiettivo non era quello di colpire senza essere scoperti o identificati; l’obiettivo era quello di riconquistare il centro della scena mediorientale, stanare le eventuali contraddizioni degli Stati Uniti, mutare un quadro strategico che da oltre un anno è sostanzialmente sfavorevole agli interessi iraniani, nonostante il successo (ormai lontano e non produttivo di conseguenze) ottenuto con l’avvento di un governo controllato da Hezbollah a Beirut.

Tutti gli eventi dell’ultimo anno che per comodità abbiamo raccolto sotto la definizione di «primavera araba» rappresentano per l’Iran un pessimo affare, a prescindere da quelli che potranno essere gli esiti di quell’autunno che sembra profilarsi all’orizzonte nel Maghreb. Se, come ancora è possibile ma sempre più improbabile, la domanda di libertà, uguaglianza, dignità e futuro posta in essere dalle folle arabe (in particolare dai giovani) non verrà tradita o dirottata dai nuovi governanti, nel Maghreb potrebbero affermarsi dei regimi «repubblicani», ovvero un pericoloso modello capace di rigalvanizzare i giovani, le donne, gli intellettuali che nelle scorse elezioni avrebbero già cacciato dal potere Ahmadinejad e i suoi, se non fossero stati derubati grazie ai brogli elettorali e zittiti a suon di omicidi ed esecuzioni. Se, viceversa, a Tunisi, Tripoli o Il Cairo dovessero prendere il potere dei partiti islamisti sunniti, l’unicità della proposta politica iraniana - una repubblica islamica di stampo autoritario e populista a forte mobilitazione e con elezioni addomesticate ma ricorrenti - verrebbe meno e il regime perderebbe molto del suo fascino agli occhi di quelle masse arabe che guardavano alla rivoluzione iraniana come il solo precedente di una rivolta di successo contro un despota autoctono spalleggiato dall’Occidente.

L’imbarazzo iraniano a fronte di quel vento di rivolta che sta scuotendo il Medio Oriente è implacabilmente messo in luce dai guai che stanno aggravando il regime siriano di Bashar Assad, il solo alleato dell’Iran nella regione, e dalla perdurante instabilità nel confinante Iraq, dove oltretutto le locali autorità sciite non sono mai apparse troppo disposte a partecipare passivamente al «gran disegno» iraniano. Nel nuovo assetto strategico che si va profilando, nonostante le gravi difficoltà interne, anche l’Egitto sta riacquistando parte di quel ruolo che tradizionalmente occupava nel Medio Oriente e che aveva perso firmando gli accordi di Camp David: alzare i toni della polemica con Tel Aviv, riaprire i valichi con Gaza e aver collaborato alla liberazione del caporale Shalit è un «filotto» che segna il ritorno dell’Egitto sulla scena diplomatica regionale. Ma è l’Arabia Saudita - l’arcinemico e per di più «empio» dell’Iran- che risulta destinato a cogliere i maggiori vantaggi dal mutamento del quadro strategico. Con un Iran ai margini della scena politica, persino la scomparsa di Saddam Hussein finisce per essere un vantaggio soprattutto per Riad, a cui la crisi del regime siriano (suo tradizionale competitor in Libano), la possibile vittoria di partiti islamisti in Tunisia, Libia ed Egitto e le gravi difficoltà in cui versa al Qaeda dopo la morte di Osama Bin Laden potrebbero regalare più di quanto i Saud avessero mai osato sperare.

Si spiega molto bene, quindi, la scelta di un obiettivo saudita. Ma perché proprio quello a Washington? Non basta il significato simbolico implicito a chiarire una simile decisione. Il punto è sostanziale. Gli iraniani sanno benissimo (e lo sanno anche i sauditi) che la crescita del ruolo di Riyad è possibile solo a condizione che gli Stati Uniti continuino a esercitare la propria influenza in Medio Oriente in modo credibile agli occhi delle capitali arabe, ben più che a quelli delle folle. Certo, la possibile svolta autoritaria delle rivoluzioni arabe potrebbe complicare la politica americana nell’area. Ma se a Washington riuscissero a mantenere i nervi saldi nel caso di una simile eventualità, proprio la carta saudita potrebbe rivelarsi preziosa. Quest’ultima però perderebbe molto della sua forza se l’America, di fronte a una clamorosa provocazione, non rispondesse in maniera appropriata. E che cosa meglio di un complotto volto a uccidere l’ambasciatore saudita a Washington potrebbe rappresentare la «provocazione perfetta»? Se gli Usa dovessero reagire in una maniera giudicata troppo timida, attesterebbero ulteriormente la loro perdita di prestigio nella regione, compromettendo la stessa investitura dell’Arabia Saudita come nuovo leader del Levante e del Golfo. Se dovessero scegliere l’opzione militare dell’attacco selettivo (non esclusa dal presidente) Obama fornirebbe spazio alle accuse iraniane di agire alla stessa maniera del suo predecessore: in maniera muscolare, imperiale, «occidentale» (nell’accezione critica che il termine ha in Medio Oriente e non solo) quando si tratta di colpire un Paese islamico, alimentando così la polemica anti-imperialista e antisionismo degli ayatollah, a cui le folle arabe continuano a restare sensibili.

Dal punto di vista iraniano il complotto apre quindi a due possibilità diverse, ma che consentono entrambe di smuovere un quadro altrimenti destinato a soffocare lentamente il regime iraniano, alle prese con una crisi economica grave, acuita dalle sanzioni internazionali per un programma nucleare dall’esito e dai tempi per nulla scontati. Oltretutto nella consapevolezza che l’unica cosa che Obama non vuole e non può fare e quella di scatenare una vera e propria guerra risolutiva contro l’Iran...

 
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