(ASI) Da oltre tre mesi la Libia è sotto assedio, ribelli anti Gheddafi aiutati dalle milizie politicamente corrette delle nazioni atlantiche stanno gettando il paese nord africano nel baratro di una guerra civile che ricorda molto da vicino la vicenda della ex Jugoslavia.
Chi ci sta guadagnando sono le potenze occidentali che aiutando i ribelli, che ogni giorno appaiono più vicino alla vittoria finale, otterranno petrolio di ottima qualità a prezzi stracciati e si renderanno utili a ricostruire un paese devastato dai bombardamenti intelligenti dello Zio Sam e dei suoi compagni d’armi; chi però rischia di trovarsi con il cerino in mano e pagare un prezzo altissimo per questa condotta è l’ex premio Nobel per la pace Barak Obama che, sulla scia di quanto fatto dai suoi predecessori, ha trascinato gli Usa nell’ennesima fronte di guerra.
Qualcuno potrebbe trasalirle ed obiettare che ciò è impossibile data la vocazione guerrafondaia e conquistatrice, eppure a condannare Obama potrebbero essere dei semplici e banali cavilli burocratici.
Il primo presidente di colore degli Usa ha infatti deciso di invadere Tripoli e dintorni senza prima chiedere l’autorizzazione al Congresso, quasi si trattasse di uno di quei rasi arabi che la sua fame di democrazia vuole abbattere. Per carità al di là di battute e facili ironie la querelle è nata principalmente perché il prossimo anno si voterà per la Casa Bianca e i Repubblicani, per anni attaccati dai Democratici per via della loro politica estera, ora non vogliono perdere l’occasione di infliggere un duro colpo all’immagine del presidente uscente.
L’attacco a Obama è arrivato da più fronti ed è iniziato non appena i libertiferi soldati a stelle e strisce hanno iniziato a seminare guerra e distruzione nella nostra ex colonia.
Lo scorso 24 marzo Bruce Ackerman, professore di diritto e scienze politiche all’università di Yale, senza andare troppo per il sottile ha accusato l’inquilino della Casa Bianca di aver dato vita, de facto, ad una “presidenza imperiale” ricordando come nemmeno Bush figlio avesse mai osato fare tanto.
In America si sa le lobby della guerra incidono pesantemente nella vita politica ma in quella che si autodefinisce la Democrazia per antonomasia le regole hanno un loro valore e forzare la Costituzione può creare più di un problema. E se da una parte il Presidente è il comandante delle forze armate dall’altro è il Congresso l’unico depositario del potere di dichiarare guerra. A precisare meglio il quadro nel corso degli anni è arrivato il War Powers Resolution, documento figlio della fallimentare esperienza in Vietnam. Grazie a questo atto datato 1973 al presidente viene riconosciuta la facoltà di introdurre le forze armate statunitensi in una situazione di ostilità, o di potenziale ostilità, in seguito a una dichiarazione di guerra, a un’autorizzazione legale o a un’emergenza nazionale generata da un attacco al territorio, ai possedimenti o alle forze armate degli Stati Uniti, concetto che poteva, forse, valere quando Bush attaccò l’Afghanistan ma che con la Libia non ha davvero nulla a che fare.
La natura guerrafondaia della lobbycrazia a stelle e strisce offre però una scappatoia al presidente qualora manchino i requisiti sopra elencati. Iniziata una guerra entro 48 ore deve infatti inviare al Congresso un rapporto in cui spieghi le motivazioni che lo hanno spinto ad aprire un nuovo fronte di guerra ed a quel punto la controparte entro 60 giorni deve discutere la vicenda ed approvare o meno la guerra. Nel secondo caso il Presidente ha poi un mese di tempo per interrompere le ostilità e riportare in patria i soldati.
Alla forzatura operata da Obama, che comunque si parzialmente attenuto alle regole inviando il rapporto al Congresso, si sono aggiunte quelle della controparte che hanno lasciato scadere i 60 giorni senza esprimersi creare un precedente quanto mai cavilloso che potrebbe perfino portare ad una riscrittura delle regole a Washington.
I Repubblicani che controllano la Camera dei rappresentanti un mese fa hanno fatto approvare una mozione che criticava la decisione di Obama di non presentarsi al Congresso prima di intraprendere la campagna libica e lo invitava entro 14 giorni a inviare un rapporto che chiarisse la natura e le ragioni dell’intervento e della mancata richiesta di autorizzazione; paradossalmente però non è passata la mozione del democratico Kucinich che avrebbe obbligato Obama a ritirare le truppe entro 15 giorni come prescritto dal War Power Resolution, ironizzando sul fatto che Obama in questi mesi aveva trovato il tempo di discutere della crisi libica con la Lega Araba, l’Onu, l’Unione africana ma non con i suoi connazionali.
Obama rilancia la sua sfida al Congresso ricordando che l’attacco era avvenuto su richiesta della Lega Araba ed in osservanza delle risoluzioni 1970 e 1973 del Palazzo di Vetro e puntualizzando che l’avvenuto passaggio di ogni responsabilità alla Nato aveva cambiato le carte in tavole ed il ruolo degli Usa, a quel punto quasi secondario.
Mentre negli Usa Obama e il Congresso discutono per decidere se sia più importante la forma o la sostanza in Libia si continua a combattere anche grazie alla volontà degli Usa di infiammare sempre di più il mondo.
Quando Obama venne eletto in molti, in tutto il mondo, festeggiarono sognando un mondo migliore in cui la politica guerrafondaia di Bush sarebbe stato solo un ricordo. Sarebbe bello chiedere a quelle stesse persone se la pensano ancora così o se hanno finalmente aperto gli occhi di fronte alle mire espansionistiche del regime statunitense dove cambiano i presidenti senza che gli americani possano vivere un solo giorno senza essere in guerra contro un qualche popolo libero.