Cuarón conferma la sua maturazione, ponendo domande senza dare risposte, svelandosi più vicino a Stanley Kubrick che a Ron Howard. Pervade la fantascienza arricchendola di sentimentalismi, senza snaturare il genere stesso. Non può svalutarsi in rigide maglie di genere.
Il regista messicano ha la capacità di magnetizzare ed immergere lo spettatore nella cornice, pallida e asettica, dello spazio fin dai primi fotogrammi: ben diciassette minuti in piano sequenza dove la sua ripresa riesce a far attraversare, allo spettatore stesso, lo spazio. Muove la macchina da presa fino al primo piano del personaggio nel panico, passando alla visiera del casco, fino a ruotare in soggettiva; in quel momento vi è piena coincidenza tra personaggio e spettatore: si diviene protagonisti, centrifugando senza riferimenti e coordinate. L’autore sembra suggerire che l’osservare è necessità primaria per esistere, ma non è semplice visione; si fluttua con i personaggi.
Riduttivo quindi sarebbe ascrivere ciò agli effetti 3D ed ai CGI piuttosto che ai virtuosismi della macchina da presa, del quale l’autore ha già dato prova come ne “ I figli degli uomini” o il terzo episodio di Harry Potter “Il prigioniero di Azkaban”.
La trama è davvero semplicistica e poco originale, ma non è in ciò che si fonda il prestigio del lungometraggio. L’allegoria, infatti, è assolutamente vincente.
Due astronauti americani, in missione di sperimentazione e ricerca nello spazio, si ritrovano a sopravvivere dopo una serie di incidenti. Sandra Bullock, Ryan Stone, nome maschile per sottolinearne la durezza, è un medico ingegnere, preparata sulla carta ma senza esperienza. La sua abnegazione lavorativa è sintomo di grande incapacità nel gestire traumi del passato, che le impediscono, anche a distanza di anni, di vivere per uno scopo vero. George Clooney, Matt Kowalski, è il comandante dello shuttle, pieno di verve e capacità pratiche. La dottoressa Stone si ritroverà completamente sola, non solo a sopravvivere alle difficoltà fisiche nello spazio, ma soprattutto quelle interiori intese come dolori e paure represse e nascoste a sé stessa.
La metafora cinematografica è rintracciabile nella pesantezza della gravità stessa, che grava quanto quella emotiva. É l’ansia dell’essere umano nel cercare di avere riferimenti emotivi.
La Bullock riesce, solo con mimica facciale e voce, a reggere l’incessante focus, sulla tensione patetica. È in frequente movimento verso la propria rinascita più che salvezza fisica. Attaccata con corde e funi al comandante lotta ancora impaurita e dipendente dall’azione incisiva del comandante. Si barcamena come fosse un cordone ombelicale, senza il quale non vi è speranza alcuna. Commovente è la ripresa in campo medio, quando all’interno della base russa, spogliata della muta e di qualsiasi aiuto esterno, galleggia in posizione fetale, pronta alla vita nuova, o più semplicemente al riscoprire sé stessa, dimenticata sotto al dolore, per troppo tempo.
Gloria Panfili - Agenzia Stampa Italia