Ad un ulteriore livello, diciamo così sub-carsico, procedeva l’occupazione delle scuole da parte dei sindacati. Questi si accontentavano dei piani bassi dell’istituzione, che sono poi i più popolosi e quindi maggiori apportatori di consensi e di tessere. Il costituirsi delle RSU d’Istituto (anno diaboli 1998) con il dispiegarsi della relativa contrattazione costituiva il momento decisivo di questa parte del processo.
La concomitanza di questi tre fattori ha accelerato il mutamento già in atto nella scuola italiana almeno fino dall’approvazione della legge che il 31/05/’74 istituiva gli Organi Collegiali, raccogliendo e codificando alcune istanze disgregatrici del movimento del ’68.
La scuola si è trasformata da “Istituzione” a “servizio” ed è in questo slittamento semantico che si coglie il senso di una decadenza che non sembra trovare correttivi. Le scuole sono oggi dei supermercati delle discipline e delle attività in cui quello che conta è proporre in modo accattivante dei prodotti di cui il cittadino-cliente vorrà fruire, battendo la concorrenza di altre istituzioni. Il “prodotto” fornito non è costituito soltanto dal sapere curriculare (fuori dall’insopportabile pedagogese: dalla materia di studio di indirizzo) ma anche da tutta una serie di attività paradisciplinari o addirittura di intrattenimento, che le scuole erogano come servizio aggiuntivo e costituiscono lo specchietto per il genitore-allodola il quale non vede l’ora di iscrivere i figli al corso pomeridiano di ikebana.
A latere di tutto ciò, cresce quello che Giorgio Israel ha recentemente chiamato “feticismo dei numeri e dei test automatici”, cioè la ricerca di un’impossibile assoluta obbiettività delle valutazioni, le quali ultime si dispiegano in un ben ampio raggio d’azione concernendo: a) gli studenti; b) i docenti; c) la singola istituzione scolastica nel complesso dei “servizi” che “eroga”.
Così la scuola, impegnata nel vestire i paramenti della scienza esatta, perde ogni fiducia nei suoi protagonisti in carne ed ossa e si affida ai test a risposta chiusa e alle griglie valutative predeterminate, asfissia della capacità di progettazione didattica del docente uti singulus. E’ stato insomma costituito un sistema i cui fondamentali principi potrebbero essere così sintetizzati: tecnicismo senza passione, metodica senza amore, pratica del pensiero unico.
Di tutto il detto sistema la componente più in sofferenza è quella degli insegnanti. Può darsi che ciò sia avvenuto perché Ministri e pedagogisti si sono occupati di questioni di impalcatura e di dettaglio, deliberatamente trascurando coloro che sono i principali attori dell’istruzione (“ … si sono occupati dello scheletro dell’ammalato, trascurandone la carne e il sangue” come dicevamo in uno dei nostri comunicati). E’ però anche più probabile che sia stato lo stesso asettico meccanicismo del sistema a relegare i docenti in una marginale funzione tecnica, funzione da addetto al controllo simile a quella dell’operaio che nella fabbrica del nuovo millennio sorveglia a distanza la catena dei robot, di quando in quando intervenendo in punta di dita sul quadro comandi se un sensore rivela l’allontanarsi dai parametri standard.
Senza voler negare l’esistenza di eccezioni, in questo quadro spersonalizzante i docenti svolgono la loro professione con spirito rinunciatario, in modo frequentemente ripetitivo, sempre più oberati dagli adempimenti burocratici, provando nei confronti del quotidiano lavoro un sentimento di alienazione (dunque trasferitosi dalla fabbrica tayloristica in cui l’aveva identificato Karl Marx alle aule scolastiche), in condizioni di tensione emotiva determinata dalla disistima pubblica, dalle frizioni con gli studenti e i genitori, dalla paranoia valutativa e dalle esigenze della trasparenza cui il lavoro li costringe, infine dalle pressioni dei Capi d’Istituto che la qualifica di Dirigente ha collocato in una posizione preminente e reso depositari un potere sanzionatorio cui nei fatti è impossibile opporsi. I loro stipendi, notoriamente i più bassi d’Europa, non sono che il degno corollario della deprimente situazione qui sintetizzata.
Tutto ciò detto, l’AESPI deve domandarsi e deve domandare se esistono, fra i partiti impegnati nella prossima competizione, soggetti politici disponibili a dare inizio – quanto meno – a una significativa inversione di tendenza. Partiti i cui uffici scuola si rendono conto che un sensibile miglioramento della situazione passa non attraverso l’ennesima alchimia pedagogico-didattica, ma attraverso la riqualificazione dei docenti, ottenuta non a chiacchiere ma per mezzo di un riassetto giuridico il quale comporta Consiglio dell’Ordine o della Docenza, Albo, Codice deontologico, Contrattazione separata e quant’altro costituisce una status non meramente impiegatizio. Partiti che ritengano possibile riannodare il piatto presente con la tradizione pedagogica e scolastica italiana, la quale trova nella Riforma Croce-Gentile un passaggio fondamentale ancora oggi in grado di fornire utili indicazioni. Che sia disponibile, infine, a superare la dicotomia pubblico-privato la quale, anche nel mondo della scuola, altro non è che il paravento del più vieto e provinciale anticlericalismo.
Esistono tali partiti, e al loro interno uomini che condividono la nostra analisi e le nostre indicazioni? Ad essi chiediamo un riscontro esplicito al presente appello ed offriamo la collaborazione (se gradita) del nostro centro studi. Non mancherà loro l’attenzione nostra e dei nostri aderenti in occasione delle elezioni alle porte.
Il Presidente
Prof. Angelo Ruggiero