La condanna unanime delle violenze avvenute qualche giorno fa in Grecia, in occasione degli scontri andati in scena durante una manifestazione promossa da alcuni gruppi cristiani ortodossi per protestare contro una rappresentazione teatrale blasfema ed offensiva, risponde esattamente agli stessi parametri. Ormai da tempo la Chiesa Ortodossa sta subendo una serie di attacchi che non possono definirsi isolati o semplicemente casuali. Alcuni mesi fa, fu il caso del gruppo delle Pussy Riot in Russia a catalizzare l’attenzione internazionale in un vortice di atti osceni e blasfemi ai danni dei simboli della Cristianità: le tre pseudo-artiste e i loro seguaci si resero protagonisti di orge in luoghi pubblici, di atti di vandalismo e di un’esibizione blasfema dentro la più importante cattedrale di Mosca, in segno di protesta contro il governo di Vladimir Putin.
La matrice politica del gesto era evidente, ed è quello che fece subito ritenere che dietro queste tre ragazze si nascondessero sigle e organizzazioni non-governative estranee al Paese. A sciogliere ogni dubbio fu Hillary Clinton, che intervenne immediatamente in difesa delle tre ragazze, violando così la sovranità giuridica dello Stato della Federazione Russa. Del resto, la moglie dell’ex presidente degli Stati Uniti non è nuova a queste esternazioni. Qualcosa di simile avvenne tre anni fa durante il processo contro Amanda Knox proprio a Perugia. In fin dei conti, il governo degli Stati Uniti di scarcerazioni facili se ne intende. Basti ricordare come si concluse il processo ai soldati statunitensi responsabili dell’incidente del Cermis nel 1998: assolti e promossi di grado. Nel frattempo la celebre cantante italo-americana Madonna si era esibita a San Pietroburgo, calpestando una croce ortodossa durante l’evento, dinnanzi a migliaia di ammiratori accorsi da varie città della Russia occidentale per assistere al suo concerto. Il gruppo “femminista” ucraino Femen, invece, si era distinto per aver segato una croce ortodossa in una foresta del proprio Paese, oltre ad aver inscenato altre ridicole esibizioni pubbliche con i seni in bella evidenza.
È stata poi la volta della Serbia, dove alcune organizzazioni non-governative, sostenute dall’Unione Europea, hanno tentato nuovamente di indire un gaypride a due anni di distanza dai terribili scontri di Belgrado, una città ancora sanguinante per le numerose ferite inferte negli anni Novanta, dove migliaia di fedeli ogni anno fanno sentire la propria voce per la triste vicenda della provincia di Kosovo-Methoija, una martoriata regione balcanica che per il Patriarcato di Belgrado costituisce il cuore storico e pulsante della religiosità serba ma che, a causa della massiccia immigrazione pilotata di albanesi sia durante la Seconda Guerra Mondiale (ad opera dell’Asse) sia durante la guerra nell’ex Jugoslavia (ad opera della Nato), è stata completamente snaturata dal punto di vista etno-linguistico. Basta sovrapporre la mappa delle Chiese e dei monasteri ortodossi presenti sul suolo kosovaro, alla cartina della configurazione etnica della regione, per osservare la contraddittorietà della situazione in cui le ridotte comunità serbe stanziate nel Nord del Kosovo si ritrovano a dover resistere. Probabilmente la Chiesa Ortodossa Serba, per le sofferenze patite nel corso della storia sin dai tempi dell’avanzata dell’Impero Ottomano, costituisce uno degli esempi più strazianti di martirio e sacrificio, in un contesto nazionale dove la Cristianità orientale è fortemente radicata nel sentimento comune popolare.
Al di là del legittimo rispetto verso le normali inclinazioni sessuali personali, che nessuno sembra voler mettere in discussione, è opportuno ribadire che la vulgata liberale ha ormai assunto le sembianze di una vera e propria dottrina politica dogmatica che stabilisce canoni ed eresie, imponendo i criteri per indicare ciò che è politicamente corretto e distinguerlo da ciò che non lo è. Tutto ciò è inaccettabile, e pensare che acconsentire alla realizzazione di una sfilata di uomini e donne conciati come clown, seminudi, intenti a scambiarsi effusioni pesanti in luoghi pubblici, rappresenti un segno di civiltà o di progresso sociale è davvero ridicolo. E diventa ancor più ridicolo se pensiamo che nel frattempo, a pochi chilometri dal centro di Belgrado, gestori aziendali come Sergio Marchionne hanno impiantato stabilimenti industriali dove gli operai serbi lavorano come schiavi in cambio di salari che, nella stragrande maggioranza dei casi, non superano la cifra di 300 euro al mese.
La Chiesa Ortodossa Serba rappresenta per tutte queste persone un simbolo di unità popolare ed un appiglio di speranza in un Paese a cui nel giro di vent’anni è stato tolto tutto. Un sistema discutibile nelle forme economiche e nelle dinamiche della stabilizzazione interetnica, tuttavia funzionante e socialmente avanzato come quello socialista jugoslavo è stato distrutto dall’improvvisa intensificazione dei conflitti sciovinisti, attizzando così un fuoco sul quale gli Stati Uniti, il Vaticano, la Turchia, la Germania appena riunificata e l’Arabia Saudita hanno soffiato in modo determinante per spartirsi nuovamente la regione balcanica, ad ottanta anni dalla fine della Prima Guerra Mondiale.
Ora in Grecia, in uno scenario già pesantemente devastato e dilaniato dalla crisi economica e dalle algide politiche finanziarie di Bruxelles, un autore statunitense di nome Terrance McNally, ha deciso di presentare al pubblico locale un’opera teatrale scritta e presentata a New York nel 1998, che rappresenta Gesù e gli apostoli in versione omosessuale.
Dinnanzi a blasfemie e a provocazioni del genere, colpisce il silenzio sconcertante della Chiesa Cattolica, che in quasi tutto l’Occidente ha ormai perduto lo storico potenziale carismatico che qualche decennio fa esercitava sulle masse popolari. Tale silenzio risulta incomprensibile, se non motivato da un arroccamento su posizioni settarie ed integraliste che pretendono di rispolverare con perfetta tranquillità tutti i numerosissimi scheletri nell’armadio del Vaticano, a partire dal Sacco di Costantinopoli del 1204 fino a giungere alla beatificazione, voluta da Giovanni Paolo II, del cardinale Stepinac, responsabile morale e politico del brutale regime croato installato dai criminali ustascia di Ante Pavelic negli anni Quaranta. Al di là di ogni utopico ed improbabile dialogo ecumenico, Roma continua comunque ad ignorare la necessità di riavvicinare la Chiesa Latina e la Chiesa d’Oriente almeno sulle questioni più dirimenti e di stringente emergenza quali le stragi, le persecuzioni e le blasfemie anticristiane, per proseguire sulla linea di un assurdo tentativo di intromissione nei Paesi a maggioranza ortodossa a scopi evangelici e politici.
Fu il direttore della polizia sovietica (NKVD) Georgij Karpov ad intuire già negli anni Trenta la stretta correlazione tra l’atteggiamento evangelico della Chiesa Cattolica e la funzione geopolitica del Vaticano in quanto Stato istituzionale, scrivendo a proposito del problema legato alla minoranza cattolica e filopolacca presente in Ucraina, che “per il Vaticano l'uniatismo è stato un ponte verso Est per la diffusione del cattolicesimo. [...] Nel periodo sovietico la chiesa uniate [...] è diventata per il Vaticano un supporto per attività eversiva antisovietica in URSS, la base delle bande clandestine nazionaliste e un noto ostacolo all’edificazione socialista”. Già dal 1929, il pontefice Pio XI aveva istituito il Collegio Russicum, una missione cattolica da inviare in Unione Sovietica, cercando di approfittare dell’azzeramento istituzionale della Chiesa Ortodossa Russa nei primi anni del potere bolscevico. Protagonisti principali di quella missione erano alcuni preti cattolici polacchi, francesi e italiani, tra i quali Paul Chalair, Fabian Abrantowicz, Jan Kellner, Jerzy Moskwa, Jean Nicolas, Pietro Leoni e Vendelin Javorka. Saranno tutti deportati in Siberia o fucilati, con accuse che vanno dall’estremismo religioso allo spionaggio industriale e militare.
Recepita da Stalin, inoltre, l’intuizione di Karpov aveva nel frattempo permesso un riavvicinamento decisivo tra il Soviet Supremo e la Chiesa Ortodossa Russa, tanto che nel settembre del 1943 le massime autorità dell’Unione Sovietica ripristinarono la libertà di culto e diedero il loro consenso alla ricostituzione del Patriarcato di Mosca, a 222 anni dal decreto con cui Pietro il Grande aveva sostituito la struttura patriarcale con quella sinodale. Gli anni successivi alla morte di Stalin (1953), pur tra difficoltà e ricorrenti tensioni tra Stato e Patriarcato, avrebbero tuttavia solidificato questa ritrovata coesistenza grazie all’importantissima opera compiuta dal Patriarca Pimen – premiato più volte dalle istituzioni sovietiche per il suo impegno per la pace – durante gran parte della Guerra Fredda.
È dunque facilmente comprensibile che in Paesi di forte impronta bizantina come la Russia, la Serbia e la Grecia, le rispettive Chiese Ortodosse autocefale abbiano contribuito in maniera determinante alla costruzione e alla definizione dell’impalcatura politico-istituzionale, e tutt’oggi costituiscano una parte ineliminabile del patrimonio culturale nazionale e della memoria comune popolare. Al contrario, la Chiesa Cattolica ha sempre impedito qualunque processo di unificazione nazionale in Italia, denunciando ancora oggi la natura “massonico-laicista” del Risorgimento, che pure ebbe una componente profondamente cristiana, socialista e popolare. Scomparsi i regimi comunisti dell’Unione Sovietica e della Repubblica Federale Jugoslava, con le loro problematiche interne ma anche con le loro solide garanzie sociali e previdenziali, le sofferenze patite da queste popolazioni durante quella terribile fase di radicale trasformazione economica e politica, hanno trovato conforto nell’opera delle piccole Chiese locali e dei metropoliti, o per lo meno di quelli più vicini e sensibili alle necessità popolari. Il leader del Partito Comunista della Federazione Russa, Gennadj Zjuganov, ha spesso ricordato come in Russia le idee collettive e comunitarie facciano parte del tessuto sociale nazionale, ricorrendo ad una sostanziale sovrapposizione semantica tra il termine politico “soviet” (comunità, collegio popolare) e il termine religioso “sobornost’” (comunione, conciliarietà).
Per questo ogni attacco all’Ortodossia costituisce un attacco alla dignità, ai sentimenti e alle condizioni materiali e immateriali dei popoli orientali. Per questo è evidente che ogni attacco contro l’Ortodossia da parte di organizzazioni e istituzioni riconducibili al governo di Washington, non sia affatto casuale. Per questo il politologo polacco-statunitense Zbigniew Brzezinski scrisse che “dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il nemico principale degli Stati Uniti sarà la Chiesa Ortodossa Russa”.
Andrea Fais – Agenzia Stampa Italia