(ASI) Un viaggio, il primo di Giorgia Meloni da premier in Cina, sostanzialmente positivo, specie considerando che è avvenuto circa otto mesi dopo aver inviato a Pechino la lettera ufficiale di uscita unilaterale dal Memorandum sull'Iniziativa Belt and Road (BRI), siglato nel marzo 2019 dal Governo Conte I (giallo-verde).
In conferenza stampa, il presidente del Consiglio italiano ha puntualizzato che gli accordi conclusi sono in perfetta coerenza con quella decisione, ricordando che l'intesa di cinque anni fa non aveva prodotto effetti sostanziali, ma addirittura accresciuto il deficit commerciale dell'Italia rispetto alla Cina.
Difficile pensare che in appena quattro anni, di cui quasi tre bloccati dalla pandemia, un memorandum, per altro non vincolante e già messo in soffitta l'anno dopo dal Governo Conte II (giallo-rosso), potesse generare qualche risultato. Eppure, intorno a quella firma, che aveva fatto dell'Italia il primo ed unico Paese del G7 ad aderire al megaprogetto infrastrutturale di Pechino, si era discusso animatamente tra le stanze del Parlamento.
Al termine di questa sua missione in Oriente, conclusasi oggi a Shanghai incontrando le autorità locali, Giorgia Meloni prende atto che la potenza asiatica è un attore imprescindibile, non solo per l'economia italiana e globale ma anche per la stabilità geopolitica. Se il primo giorno di incontri ufficiali ha tirato in ballo la dimensione del commercio e degli investimenti nelle due direzioni, con il business forum bilaterale alla presenza del primo ministro cinese Li Qiang, il vertice con il presidente Xi Jinping del secondo giorno ha infatti preso in esame anche e soprattutto l'agenda internazionale, con i conflitti in Ucraina e in Medio Oriente sullo sfondo.
In questo 2024, che celebra i vent'anni dalla firma del partenariato strategico globale bilaterale, voluto dall'allora Governo Berlusconi II, Meloni non poteva non rispondere all'invito fattole da Xi a margine del G20 di Bali, nell'ormai lontano novembre 2022. La decisione di abbandonare il memorandum era stata giudicata molto male dall'opinione pubblica cinese, proprio perché ritenuta una mancanza di rispetto ed un segnale di cedimento alle pressioni statunitensi.
I cinque giorni di visita hanno invece contribuito a gettare nuove basi nelle relazioni tra i due Paesi, diradando le nubi dei mesi scorsi. Stando al testo del Piano d'Azione per il rafforzamento del Partenariato, le parti hanno messo nero su bianco un quadro di cooperazione in sei settori ritenuti prioritari: commercio e investimenti; finanziario; innovazione scientifico-tecnologica e istruzione; sviluppo verde e sostenibile; medico-sanitario; rapporti culturali e scambi people-to-people.
Per quanto riguarda il primo ambito, Italia e Cina hanno dichiarato congiuntamente di sostenere «un sistema commerciale multilaterale basato sulle regole, libero, equo, aperto, trasparente, inclusivo e non discriminatorio, con l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) al suo centro», promuovendo «una globalizzazione economica aperta, inclusiva, equilibrata e a beneficio di tutti, la liberalizzazione e la facilitazione del commercio e degli investimenti».
Le due parti, inoltre, «concordano sull’importanza di intensificare e riequilibrare gli scambi commerciali, esplorare il potenziale del commercio bilaterale e continuare ad incentivare i flussi di investimento nei due sensi, in un contesto trasparente e a parità di condizioni», «sottolineano la necessità di rafforzare ulteriormente il ruolo della Commissione Economica Mista per favorire la cooperazione imprenditoriale e il dialogo sulle rispettive politiche economiche nell'ambito di tale meccanismo» e «concordano anche di valorizzare il ruolo innovativo e complementare del Business Forum Italia-Cina, volto a fornire una piattaforma per promuovere gli scambi tra governi e imprese e favorire lo sviluppo economico e commerciale bilaterale».
Sul fronte dell'accesso al mercato, uno dei temi più sentiti e sensibili in entrambe le direzioni, Italia e Cina hanno condiviso «la necessità di garantire reciprocamente un migliore accesso al mercato e un’effettiva parità di condizioni tra gli operatori economici, e di promuovere congiuntamente lo sviluppo equilibrato e stabile del commercio bilaterale, sfruttandone appieno il potenziale». Si impegnano poi a proseguire la collaborazione «per eliminare gradualmente le barriere non tariffarie che ostacolano indebitamente il commercio e offrire un ambiente imprenditoriale e di investimento aperto, equo, trasparente e non discriminatorio affinché le rispettive imprese possano investire e svolgere attività commerciali».
Durante il suo intervento al business forum di domenica, Giorgia Meloni ha sottolineato che gli investimenti cinesi in Italia sono ancora ad un livello piuttosto basso rispetto ai principali partner europei, smentendo di fatto un'argomentazione che per troppi anni ha rappresentato una vera e propria leggenda metropolitana, strumentalizzata anche a fini elettorali.
Pur avendo spiegato alla stampa che Xi, durante il faccia-a-faccia di lunedì, non ha posto la questione del golden power, è evidente che l'utilizzo, per ben cinque volte, di questo strumento da parte del Governo Draghi per bloccare progetti di investimento cinesi nel nostro Paese ha contribuito a creare più di una frizione. Né va dimenticato che, nel febbraio 2022, il Copasir pubblicò una relazione puntando il dito contro presunte infiltrazioni e penetrazioni cinesi in settori strategici italiani. A presiedere il Comitato per la sicurezza in quella fase era Adolfo Urso, attuale ministro per le Imprese e il Made in Italy, rientrato proprio lo scorso 5 luglio da una missione istituzionale in Cina.
«Gli investimenti cinesi in Italia sono oggi circa un terzo di quelli italiani in Cina, è un divario che ci piacerebbe colmare nel modo giusto e colmarlo rappresenta dal mio punto di vista un'ottima occasione per noi», ha detto domenica scorsa Meloni, che ha proseguito: «L'Italia chiaramente rimane disponibile ad ascoltare chi vuole produrre, investire, condividere nuovi spazi industriali, creare occupazione e ricchezza, proprio come finora hanno sempre fatto i nostri imprenditori all'estero».
Sottolineando alla platea di imprenditori dei due Paesi la rara condizione di stabilità politica che lo Stivale sta vivendo, la sua solidità economica e la sua posizione strategica in Europa e nel Mediterraneo, Meloni ha precisato che il governo sta lavorando «per garantire che l'Italia sia sempre più una destinazione competitiva, equa, attraente per le imprese globali e il Memorandum di collaborazione industriale che abbiamo sottoscritto è un passo assolutamente significativo in questa direzione».
Al di là dell'apertura nei confronti della Cina, quello della competitività è un limite strutturale dell'Italia, da anni meta poco attrattiva per gli investimenti a causa di un fisco troppo opprimente, di una burocrazia farraginosa e di una giustizia troppo lenta. A certificare le difficoltà del Belpaese in questa direzione è il World Competitiveness Ranking dell'IMD di Losanna, che nel suo ultimo rapporto annuale ha piazzato l'Italia al 42° posto tra i 67 sistemi Paese presi in esame nel mondo, contro il 14° della Cina ed il primo, irraggiungibile, di Singapore: altro pianeta, praticamente.
Non sono mancate le precisazioni. «È importante che siano investimenti buoni, [...] quegli investimenti da cui possiamo trarre beneficio in termini di incremento della produttività e del valore aggiunto [...] favorendo forme virtuose di partenariato con società straniere, a fronte chiaramente di piani di sviluppo industriali trasparenti e verificabili», ha spiegato il presidente del Consiglio, che si è soffermata anche sul problema del «forte squilibrio con un importante deficit per l'Italia», definito «una questione di grande rilevanza che vogliamo affrontare insieme e portare verso un progressivo bilanciamento».
In tal senso, Giorgia Meloni ha spiegato che «il governo italiano è ovviamente pronto a lavorare insieme alle autorità cinesi, insieme al settore privato», dicendosi al contempo «convinta che il dialogo su questo tema, cioè sul miglioramento delle condizioni di accesso al mercato cinese e sulla tutela della proprietà intellettuale, possa produrre effetti ben più benefici di quelli che noi possiamo oggi immaginare».
I richiami a Marco Polo, di cui quest'anno ricorrono i 700 anni dalla scomparsa, e alle rispettive eredità imperiali dei due Paesi hanno da sempre molta presa sul pubblico e sulle autorità cinesi, che vedono nell'Italia non solo un'affascinante destinazione turistica ma anche e soprattutto un polo di civiltà ed un potenziale ponte tra Oriente e Occidente. Un nuovo dietrofront da parte di Roma sarebbe fatale per la credibilità e per l'immagine di una nazione che già sta pagando oltre misura l'elevato prezzo di una sovranità significativamete limitata dalla subalternità militare agli Stati Uniti. Col fuoco non si può scherzare: le nostre imprese non possono più essere messe a rischio.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia