(ASI) L’imprevedibilità è diventata negli ultimi mesi una costante per gli analisti della Presidenza Trump.
Imprevedibile sembrerebbe anche il discorso di Riad svolto davanti ai rappresentanti di una cinquantina di paesi sunniti: ma a parte le parole spese in difesa e in onore della religione islamica, affiancata nell’occasione alle altre due religioni del Libro – che sicuramente costituisce una svolta mediatica rispetto al divieto di ingresso di cittadini dei paesi musulmani negli Stati Uniti – restano numerosi gli elementi di continuità: vedi il duro attacco a Assad ribadito nonostante il rapporto ONU che ha smentito l’uso di armi chimiche da parte della Siria nei bombardamenti di Idlib dell’aprile scorso; vedi la pazzesca accusa all’Iran di essere un paese che diffonde il terrorismo in Medio Oriente, è vero esattamente il contrario, e da sempre, anche prima di Rohani e di Ahmadinejad; vedi il business, i 110 miliardi di armi vendute all’Arabia saudita, già al centro dei rapporti con la Cina, e dopo la crisi coreana, nella complessa triangolazione Washington Pechino Piong Yang. E per finire, persino la contraddizione onore all’Islam-divieto di ingresso ai musulmani potrebbe essere sminuita fino a risultare inesistente: io onoro l’Islam buono, al quale voi dovete dimostrare di appartenere, alleandovi con gli Stati Uniti nella guerra al terrorismo. Già nella campagna elettorale, Trump aveva chiesto a ragione la distruzione dell’Isis. Ora ribadisce questa posizione in Arabia saudita, e davanti al rappresentante del Qatar: due paesi sin qui noti sponsor del Daesh, assieme a Israele. Dando loro in pasto, peraltro, oltre a Assad e l’Iran, anche Hezbollah, attivamente impegnato nella guerra agli estremisti dello Stato islamico
Trump non conosce questi fatti? O semplicemente li nega? E se è vera questa seconda ipotesi, perché?
Alcune considerazioni sono a questo punto necessarie, seguite da due ipotesi e da una certezza.
IL CONTESTO GEOPOLITICO DEL DISCORSO DI RIAD
Le considerazioni riguardano innanzitutto la necessaria contestualizzazione di ogni iniziativa di Trump nello scenario geopolitico globale e nel tempo: non una parola sulla Russia a Riad, ma è impensabile che questo possa significare, anziché soprattutto un accorgimento per non irritare l’ospite saudita, una rottura frontale con Mosca, alleata di Assad, dell’ Iran e di Hezbollah. Secondo, i 110 miliardi all’Arabia saudita saranno devoluti a rate, e questo vuol dire che Washington avrà in mano uno strumento di pressione che va al di là della firma dell’accordo di ieri, col rischio per l’ alleato (come già accadito a Israele) di vedersi privare del regalo in caso di non obbedienza, così come accaduto allo stesso Israele negli anni passati. Terzo, l’incontro odierno con Netanyahu, un incontro difficile che prima ha suscitato grandi speranze a Tel Aviv e poi, nelle ultime ore, preoccupazione per il timore che nulla di concreto potrebbe sortire dai colloqui tra il primo ministro israeliano e il presidente USA. Così come è stato fino ad oggi: Trump peraltro incontrerà anche Abu Mazen, e già nel marzo scorso aveva detto a a Netanyahu “mettetevi d accordo, fate la pace” (palestinesi e israeliani) senza concedergli nulla.
Da qui due ipotesi: la prima è che il duro attacco all’Iran e allo sciita Hezbollah, come anche le parole immonde pronunciate da Trump in difesa del Bahrein e contro i cosiddetti “terroristi” sciiti oggetto di criminali stragi da parte di Riad, siano un accorgimento tattico in vista della visita di oggi in Israele, qualcosa da dare in pasto non solo a Netanyahu ma anche a un establishment e a una “opinione pubblica” (per non citare quell’estremismo talmudista che già assassinò Rabin nel 1994) drogati da un odio e avversione protervi e illegittimi verso il diritto dei palestinesi alla fine della colonizzazione israeliana. Ma è una ipotesi, presa in sé, alquanto debole: semmai, le parole di Trump contro Tehran e il suo alleato Hezbollah, potrebbero essere viste anche come una indiretta pressione sulla Russia, sull’Iran e dunque su Hezbollah perché accettino l’uscita di scena di Assad, un presidente che è noto per aver sempre difeso i cristiani siriani dagli attacchi non solo dell’Isis ma anche dei ribelli cosiddetti moderati, e che tuttavia sembra ormai nel mirino di Washington.
La seconda ipotesi è che quanto detto sopra, rifletta una strategia vera e propria di Trump in Medio Oriente: il cui progetto di alleanza per un Medio Oriente di pace – già tentato da Bush dopo l’11 settembre, e fallito miseramente con l’aggressione all’Iraq del 2003 - escluderebbe a priori gli sciiti: Bahrein, Hezbollah, Tehran. Se così fosse gli stessi Stati Uniti ripeterebbero il tragico “errore” di Bush e Colin Powell, false accuse comprese: contro Bagdad, la menzogna delle armi di distruzione di massa si concretizzò nel 2003, ma fin dal 2001 Saddam era stato accusato di essere alleato di Al Qaeda. Pazzesco, come oggi l’accusa a Teheran.
MA HEZBOLLAH E’ UN MOVIMENTO DI LIBERAZIONE NAZIONALE
Questa è una prima certezza. Alle cui spalle sta quella dell’assoluta falsità dell’immagine fornita a Riad dal Capo della Casa Bianca, sull’Iran e su Hezbollah: un paese che combattendo il Daesh e difendendo Assad si batte per la difesa della sovranità degli Stati indipendenti del Medio Oriente e contro i progetti di balcanizzazione da sempre sostenuti da Israele (piano Ynon, 1982, rivista Kivunim: divdiere tutti gli Stati del medio Oriente secondo linee etniche e religiose e dunque non contro ma per la stabilità regionale. E un movimento di liberazione nazionale – Hezbollah - che combatte armi in pugno contro una minaccia straniera, assistendo il debole governo di Beirut da un paese, Israele, che ha invaso il Libano piu’ volte, l’ultima nel 2006, subendo una sconfitta militare storica proprio grazie alla resistenza del “Partito di dio”.
Negare questi fatti, vuol dire negare la realtà, e non conoscere l’abc del diritto internazionale: che recita secondo lo Statuto delle Nazioni Unite e le numerose dichiarazioni e risoluzioni ONU di decenni di attività, che chi combatte una occupazione straniera, ha diritto a ricorrere se necessario anche alla lotta armata. Come accaduto durante la decolonizzazione degli anni Sessanta e Settanta; e come del resto fecero anche i miliziani americani del 1776, ribellandosi con le armi contro l’occupazione inglese.
Prof. Claudio Moffa