(ASI) Chi se lo sarebbe aspettato? Chi con infrangibile sicurezza avrebbe mai detto di aspettarsi ciò che è successo questo 24 giugno? Invece è successo. La Gran Bretagna, il Regno di sua Maestà Elisabetta II, ha detto “leave”.
Molte erano state le “armi” utilizzate dalla propaganda pro-U.E. per contrastare questo inaspettato esito. Giornali, televisioni, intellettuali, studiosi, interi agglomerati politici dalla destra alla sinistra, si erano mobilitati per scongiurare la “Brexit”. I sempre onnipresenti mercati e i loro uomini, a più riprese avevano giurato forti ripercussioni al Regno Unito se il popolo di sua Maestà non si fosse comportato “educatamente” votando il “remain”. Ma nessun accorato appello, nessuna descrizione di apocalittici disastri, nessuna – diciamolo chiaramente – minaccia è servita per fermare il popolo britannico.
Quando i dati, i grafici, gli studi, i numeri non bastavano, si è fatto ricorso all’emozioni, perché si sa i sentimenti, la psicologia, è l’unico e vero strumento per accaparrarsi le masse. “Possiedi i cuori e possiederai le menti”: questo è l’unico e vero verbo della politica. Quindi fiumi di lacrime, caustici anatemi di condanna, celebrazioni al pari di quelle di un martire per l’omicidio della parlamentare inglese, laburista ed anti-Brexit Jo Cox. Ma nemmeno queste – al di là dell’ovvia condanna per un simile gesto – non sono bastate.
A vincere sono stati non i numeri, non i grafici, ma i portafogli della classe media inglese resi più sottili nel loro spessore dal matrimonio della Monarchia inglese con l’Unione Europea. A vincere è stato il desiderio di rivalsa dei lavoratori – la celebre “working class” – che si sono visti, anch’essi, diminuire le loro poche ricchezze dal matrimonio della Monarchia inglese con l’Unione Europea. A vincere è stato il risvegliarsi dell’antico patriottismo che rammenta – romanticamente – il tempo dell’Impero.
Un risultato talmente inatteso che ha smentito qualsiasi sondaggio che dava avanti – seppur di misura – il “sì” a rimanere. Tutti si sono dovuti ricredere e per primo il Premier inglese David Cameron, che fu lui
a concedere al popolo del Regno Unito il voto sulla delicata materia dell’uscita o meno dall’U.E.. Cameron, come è ormai risaputo, aveva indetto il referendum con ben altra intenzione rispetto all’esito finale: dare maggiore forza alla sua politica nel Parlamento inglese e poter conseguire una posizione ancora più elevata della Gran Bretagna in seno all’Unione Europea. Ma i fatti hanno preso una strada totalmente opposta. Il Premier inglese da quel anelito di corroboramento della propria posizione politica, è stato costretto a dichiarare le sue dimissioni da Primo ministro della Corona.
Certamente le motivazioni per l’uscita della Gran Bretagna non erano così “forti”, come potevano essere quelle dell’anno scorso per la Grecia. Nonostante tutto, la terra di sua Maestà ha sempre potuto vantare una posizione privilegiata all’interno del quadro U.E.. Aveva mantenuto la propria moneta nazionale – la sterlina – rispetto agli altri Stati membri, tutti con l’Euro. Tenendo sempre un decisivo e incisivo parere su tutta la politica europea. Insomma Londra ha preso più vantaggi che svantaggi dall’U.E.. Ma quel tanto di svantaggio è bastato per protendere all’uscita: il rischio di dover prendere una corposa quota di migranti provenienti dall’Africa come ha più volte proposto la Germania per ogni Stato membro; il crescente flusso nello Stato britannico di immigrati europei, che al netto della storia dei “lava piatti”, divenivano sempre più concorrenziali nel mercato del lavoro inglese anche e soprattutto nelle occupazioni di un certo rilievo, a scapito dei lavoratori britannici; un’Unione Europea ormai incapace se non anche “nemica” nel difendere la produzione marchiata Regno Unito nel contesto europeo e nel più grande contesto internazionale. Questo ed altro hanno permesso lo storico risultato di venerdì 24 giugno.
Niente sarà più come prima. Ora è tutto in fermento, si annunciano emulazioni del referendum inglese in tutta Europa. In Francia la Le Pen già parla di “Frexit”, in Olanda pure e in Germania i movimenti anti-euro fanno la voce grossa. In tutta Europa il “terremoto referendario” agita e sconquassa gli ordini politici. I maggiori governi degli Stati membri rilasciano dichiarazioni quasi paradossali pur di difendere l’U.E., strizzando una volta l’occhio agli europeisti e a Bruxelles dicendo “Il voto inglese è un disastro. L’Europa è in pericolo.”, e l’altra ai sentimenti euroscettici sempre più montanti nei popoli europei affermando “Ora l’Europa deve cambiare” o come dice Matteo Renzi “deve diventare più umana”.
Il concetto fondamentale che deve essere focalizzato è che a dire via dall’U.E. è stata la Gran Bretagna. La Gran Bretagna, non la Grecia. Non un Paese che tutto sommato non ha un enorme peso sullo scenario europeo ed internazionale, ma la Gran Bretagna, la terra della “City” cioè uno dei più importanti centri del commercio mondiale. La Gran Bretagna, una patria della cultura, con le università e i college più ambiti nella parte “ricca” del globo. Non uno “Staterello”, ma un colosso mondiale. E’ questo che fa drizzare – letteralmente – i capelli agli europeisti. Fino a quando era la Grecia, si poteva parlare di un paese poco sviluppato, quasi “ignorante”: questo era il rispetto e l’importanza che si davano a questa plurimillenaria terra. Adesso è il Regno Unito ad aver detto “via”, uno di quei paesi che, per quelli con la proverbiale “puzza sotto il naso”, conta. “Come poter far fronte a tutto questo?”, “Come poter far passare il messaggio che gli inglesi hanno sbagliato, se hanno la nomea di popolo colto e infallibile?”: queste sono le domande che fanno venire madide fronti ai governi filo-U.E..
Ora l’Unione Europea mostra i “muscoli”. Agli inglesi viene detto di fare presto ad andarsene. A Bruxelles si cerca, in qualche modo, di ridarsi un certo tono di fronte la pubblica opinione. Al contempo si tentano giustificazioni e allarmi – di poco valore – per l’uscita del Regno Unito: “alla fine gli inglesi se lo potevano permettere”; “l’Inghilterra verrà travolta da questa scelta”; “La Gran Bretagna è sempre stata quasi al di fuori del contesto Europeo”; “Nessun’altra nazione U.E. si può permettere questo, perché sarebbe un disastro per chi scegliesse ciò e per l’Unione”: questi sono i concetti che vengo fatti passare in queste ore da tutto il mainstream.
Si fa ricorso anche ai tanto decantati giovani inglesi che scegliendo l’Europa si sono visti sfumare i loro sogni a causa dei padri, delle madri, dei nonni, che hanno appoggiato il leave. Si fa ricorso a questa massa, a questi fiumi su fiumi di giovani ormai europei, ormai internazionali, a questa “Generazione Erasmus” che si è vista ricrescere dalla terra i “gretti muri dei confini”.
Al netto di tutte le condanne, di tutti i moniti, va detto chiaramente una cosa: l’Europa non dirà mai addio all’Inghilterra, è l’inverso che spaventa veramente l’U.E.. Bruxelles non dirà mai addio all’Inghilterra perché ciò vorrebbe dire addio a enormi interessi economici e finanziari che hanno la loro patria nel Regno Unito. Bruxelles non dirà mai addio ad Albione perché rimane sempre un’entità troppo importante nello scacchiere internazionale. La Gran Bretagna, altresì, può dire essa addio all’U.E. e non solo come uscita dagli Stati membri, ma addio dallo spazio geopolitico U.E. e vari scenari su questo versante si stanno già ipotizzando. Come per esempio la cessazione da parte inglese delle sanzioni alla Russia, creando così un possibile partner economico (e forse anche politico) con Mosca all’interno dell’Europa che non pochi fastidi darebbe all’Unione Europea sul versante economico e – in particolare modo – su quello politico e geopolitico.
Adesso anche la Gran Bretagna dovrà fare i conti con degli spauracchi che all’indomani del voto si sono prontamente evocati. La Scozia vuole un nuovo voto per l’indipendenza da Londra, il partito nazionalista irlandese dello Sinn Féin richiede anch’esso un referendum per riunificare il nord dell’Irlanda con tutta la madre patria. Queste sono situazione che l’Unione Europea potrebbe usare a proprio vantaggio, proprio per frenare le grandi possibilità economiche e geopolitiche a cui può puntare un’Inghilterra indipendente. Ma questo è ancora presto per dirlo. Sul piano dei lati positivi o negativi, al momento – anche se ciò si cerca continuamente di ometterlo – la bilancia pende in negativo per l’U.E.
Quello che conta adesso, è che si sta predisponendo un nuovo scontro, dei nuovi discrimini politici. Il referendum Brexit ha sancito questa tendenza che si sta aggirando in tutta Europa. Non più destra e sinistra, ma popoli contro élite. Campagne e province contro città. Nazione contro Internazionalizzazione. Generazioni adulte contro generazioni giovani.
Proprio su quest’ultimo punto di “vecchi contro giovani” bisogna ristabilire un po’ di verità. Già molto è stato detto sullo “strappo generazionale” che la Brexit ha sancito in Gran Bretagna. Del sogno di questa Generazione Erasmus tradita dai suoi genitori. Ma più passano le ore e più ci si rende conto che questa è un’incommensurabile menzogna usata a pretesto dalla propaganda europeista. E’ stato detto che la stragrande maggioranza dei giovani britannici ha votato per il remain e gli adulti per il leave. Premessa la dimostrazione con il voto di venerdì di quanto poco attendibili siano questi sondaggi o studi, tali affermazioni vanno nettamente ridimensionate. A sfatare una distorsione esagerata della realtà, proprio da propaganda, è stato – tra i tanti – un fervente europeista quale è Enrico Letta. L’ex-Presidente del Consiglio italiano sulla sua pagina di Twitter ha scritto dei dati molto significativi in relazione allo spacchettamento delle caratteristiche anagrafiche della popolazione britannica che ha votato: «Una chiave per capire voto per Brexit? Tra gli elettori nella fascia 18-24 ha votato solo il 36%, tra quelli sopra i 65 anni ha votato l'83!».
Questo è uno dei tanti esempi – che in queste ore come nelle prossime – stanno smentendo il fantomatico scontro generazionale che avrebbe provocato la Brexit. Dunque solo propaganda buona a ridare respiro alle tesi europeiste ormai in profonda discesa.
Analizzando questo voto però il dato che salta all’occhio, come è già stato scritto sopra, è che le campagne, le province si sono schierate contro le città. Che i lavoratori e i piccoli imprenditori si sono uniti – anche a dispetto dei loro partiti (infatti i laburisti e i conservatori erano per il remain) – contro le grandi industrie e le classi più agiate. E quei famosi “giovani” proprio tra le grandi città e le classi più agiate si trovano. Sono giovani che vivono le realtà multietniche ed internazionalizzate di Londra, che vestono indumenti all’ultimo grido, che vogliono scoprire tutto il mondo, che non conoscono più le campagne e il sentimento comunitario che in esse ancora vive. Che non hanno più il contatto con la storia della propria terra, che della loro Patria più nulla gli interessa. Infatti questo “disinteresse” è lo stesso che Letta ha dimostrato coi dati. Una generazione in totale scollamento con ciò che la circonda ma che, però, pensa all’oltreconfine. Una generazione che ora si lamenta del ritorno dei confini ma quando si tratta di far valere le proprie posizioni va alle feste, si inebria delle mille luci nella società internazionalizzata e, alla fine, diserta le urne.
A questa generazione non importa più niente, salvo che lamentarsi sul social network di turno. Di prendersela coi padri dei propri coetanei meno abbienti, perché hanno votato per l’uscita del Regno Unito. Di essere, oltretutto, interni e omologati al dominio culturale che dai suoi altoparlanti grida i messaggi di “Multiculturalismo”, “Multietnicismo”, “Globalizzazione”, “Morte delle patrie”, “Soppressione dei confini nazionali”.
Ai giovani, di tutta l’Europa, questo voto deve rappresentare un focale spunto di riflessione. Quando mai si è vista una gioventù così appiattita, così incline e compiacente del sistema in cui cresce e si trova a vivere. A questa gioventù è stato strappato dal cuore, ucciso nella culla, il fermento ribelle che ha da sempre contraddistinto la gioventù di qualsiasi epoca.
Questo voto è la dimostrazione che – contrariamente a quanto scriveva Francis Fukuyama – la storia non è finita. Che ancora tutto può cambiare, che si possono immaginare nuovi scenari, che al posto di questo mondo si possono creare ancora nuovi mondi: da costruire, in cui crederci, per cui lottare. Quello che abbiamo a vivere è un momento storico, un punto di non ritorno: di fronte al nostro tempo si aprono mille strade al cui termine ci sono mille bivi.
La gioventù è chiamata a partecipare, a portare il proprio contributo. Viva tutto ciò da giovane e non da vecchio. Da giovane andando, se sarà necessario, anche in senso “controcorrente” ai voleri dell’élite, e non schierandosi pedissequamente al fianco delle visioni dominanti. I giovani siano giovani e pensino a costruire un mondo diverso: il vacillare dell’Unione Europea, il sempre più caldo scenario internazionale, possono essere una proficua possibilità per il ritorno di una gioventù attiva e originale.
Cara Generazione Erasmus, non farti etichettare. Cara Generazione Erasmus, non averne a male per i tuoi padri, non essere il bastone della vecchiaia di vecchi scenari, costruisci il mondo dei tuoi figli. Cara Generazione Erasmus, torna ad essere giovane. Cara Generazione Erasmus, il mondo può essere cambiato.
Federico Pulcinelli – Agenzia Stampa Italia