La mia visita nel carcere di Regina Coeli mi suggerisce anzitutto una smentita dal sapore metaforico. Il famoso gradino del detto popolare romano (1), il quale dà accesso al penitenziario, non si sale affatto. Entrare in questo complesso che si erge come un enorme, intramontabile masso nel cuore di Roma, infatti, è un po’ come immergersi in un abisso, gravido di quelle afflizioni che dilaniano gli animi di chi le subisce e scalfiscono quelli di coloro i quali, giunti da fuori come me, si trovano lì soltanto come visitatori esterni. È dunque uno scendere, piuttosto che un salire.
Dopo la rituale trafila burocratica, all’entrata, veniamo affidati a una guardia carceraria che ha il compito di accompagnarci dentro. In men che non si dica, compiuti appena una manciata di passi e valicato un imponente portone blindato, si accede già nel cortile interno. È questo il centro nevralgico di Regina Coeli, nel quale convogliano i vari bracci. Gli schiamazzi che giungono da ogni dove, il suono metallico di porte che si aprono e si chiudono sollecitano immediatamente l’udito. Ma è la vista, tuttavia, subito dopo questo iniziale impatto con i rumori, che raccoglie le percezioni più intense. Procurano un senso di oppressione il riproporsi di ringhiere, grate e reticolati ovunque, così come l’ampio soffitto che sembra voler schiacciare sotto il suo peso. Anche dalle due grandi, lustre statue situate al primo piano del cortile - quella della Madonna col Bambino e, nel lato opposto, quella del Crocifisso - si distinguono volti oltremodo segnati dalla drammaticità del luogo.
Superata questa rotonda centrale, veniamo condotti, passando per un corridoio che costeggia il cortile all’aperto nel quale detenuti in ora d’aria giocano a pallone, in una doppia stanza impiegata come biblioteca. Ci accoglie, gentile, un marcantonio che - mi pare di capire - è il responsabile della sala. Ci fa accomodare di fronte a una mini platea già in gran parte completa, che ci saluta amichevolmente, avida di poter interagire con persone esterne. Dopo una breve presentazione di Ada Guglielmucci, inizio a parlare io. Il compito che ho non è leggero; parlare ai detenuti di un carcere italiano del mio libro, che racconta di italiani detenuti in carceri straniere, è parlare a un sofferente non della sua, bensì della sofferenza altrui. Spiego loro che l’intento mio e dell’amico Fabio Polese, con il quale ho scritto queste inchieste, è sì, nello specifico, quello di dar voce ai nostri tanti connazionali detenuti all’estero, ma anche, più in generale, quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema carcerario. L’effetto che “Le Voci del silenzio - Storie di italiani detenuti all’estero” suscita nei lettori, del resto, è un senso di tristezza, ma anche di profonda indignazione. Una scossa che obbliga gli sguardi, sovente distratti dal superfluo, a rivolgersi verso queste dolorose realtà che allignano nell’ombra.
Il racconto delle storie di cui si occupa il libro lascia presto il posto agli interventi dei detenuti. Il tema affrontato rappresenta un’occasione per dar libero sfogo alla loro rabbia, a frustrazioni soffocate da un senso di impotenza. La compassione per gli italiani reclusi in carceri oltreconfine si trasforma, per queste persone, in uno spunto utile a relazionarci sulla situazione che si vive a Regina Coeli. Le serie di difficoltà delle quali vengo informato sono aspetti eclatanti, che caratterizzano in negativo una galera di un Paese che si dichiara civile. Ci dicono che parole come libertà, ma anche diritti e speranza, non fanno parte del vocabolario del carcere. Riferiscono che sovraffollamento, condizioni igieniche precarie e abusi di potere sono le angustie che più incisivamente rendono difficili i giorni vissuti lì dentro. Qualcuno mi spiega che è tale oggi il livello di disagio per cui anche quelle che un tempo erano piccole sale ricreative, con biliardini e tavoli da gioco, vengono usate come fatiscenti celle per numerosi detenuti, prive di bagni e cucine. Certe lamentele originano, poi, divagazioni più larghe. Si parla di vari problemi anche legati tra loro e, in diversa misura, inerenti alla questione carceraria: si va dall’inadempienza delle istituzioni all’ipocrisia della società, dalle frodi di chi ci governa fino a complesse considerazioni geopolitiche, senza tralasciare momenti di leggerezza che smorzano il tono dei discorsi.
Le due ore a nostra disposizione scorrono velocemente, sono gli stessi detenuti ad avvertirci che il tempo riservato a questo incontro sta per finire. In compagnia di alcuni di loro ci rechiamo di nuovo verso il grande cortile interno, scambiandoci le ultime battute. Giunti nel centro, ci soffermiamo non più di qualche secondo per i saluti finali, quando la perentoria voce di un agente ci interrompe; rammenta a noi visitatori che non è quello il luogo adibito ai colloqui con i detenuti, invitandoci così ad andarcene in fretta. Mentre ci accingiamo dunque a raggiungere il portone blindato per uscire, rivolgo infine il viso verso l’alto. I miei occhi incontrano lo sguardo del Crocifisso. È come se emanasse una raggiante luce. “Sarà perché è stato carcerato anche lui”, penso; “sarà in quanto ha proclamato «beati gli afflitti, perché saranno consolati»”, insisto. Sta di fatto che questa percezione è rassicurante, finanche commovente: non esistono sbarre che possano dividerci da Lui, non c’è abisso in terra inaccessibile al Suo messaggio di speranza.
Federico Cenci – Agenzia Stampa Italia
(1) «A via de la Lungara ce sta 'n gradino
chi nun salisce quelo nun è romano,
nun è romano e né trasteverino»