(ASI) Lecce.Dagli anni ’40 a oggi il numero degli antropologi di professione è aumentato esponenzialmente, così come sono aumentati gli studenti, grazie ai programmi di BA, MA, PhD e Masters in antropologia.
Le stesse antropologie si sono moltiplicate, specificandosi con i vari aggettivi e, in pochi anni, la antropologia si è diffusa nel mondo accademico e mediatico, arricchendo le altre scienze sociali. Pur tuttavia, il dibattito teorico ha segnato un arresto negli ultimi decenni, tranne poche eccezioni importanti ma confinate a scuole particolari. La metodologia scientifica propria dell’antropologia si è sviluppata e poi cristallizzata intorno a veri e propri protocolli le cui attività finiscono per rappresentare dei confini: le stesse definizioni delle identità etniche, del resto, sono state ristrette ad attività protocollari. Ma cosa è l’antropologia, oggi?
Grazie all’exploit mediatico e pubblico, l’antropologia si è diffusa al di fuori degli ambienti accademici e degli istituti di ricerca. Pur tuttavia, all’interesse per gli esiti delle sue ricerche non ha corrisposto una pari considerazione della disciplina all’interno dei processi decisionali a livello globale. Si pensa che l’antropologia venga sentita ma non ascoltata. Inoltre, l’aumento degli antropologi di professione non ha fatto crescere la produzione teorica, come se l’antropologia non avesse approfondito il pensiero su se stessa e sulla sua relazione con il mondo.
La caduta della Episteme in Occidente e la nascita della cosiddetta culture of the ephimeral, a livello globale, giocano un ruolo rilevante per definire la antropologia e le antropologie, oggi. Episteme è la legittima fonte della conoscenza, ciò che si erge solido e irremovibile, indubitabile. Secondo Emanuele Severino è «ciò che sta in piedi da solo». L’epistemologia studia i fondamenti, la natura, i limiti e le condizioni di legittimità e validità del sapere.
E chi si occupa ora di ricercare e studiare la Episteme? Pochi antropologi, in quanto la maggior parte di essi assume ogni sapere per certo, quasi pronto semplicemente da applicare tout court.
Criterio di eccellenza per definire l’antropologo è l’aver effettuato “la ricerca antropologica sul terreno”: un’esperienza essenziale, sine qua non, per la realizzazione di monografie etnografiche e antropologiche. «The final goal... is to grasp the native’s point of view, his relation to life, to realize his vision of his world1». E se questo obiettivo si consegue, ciò avviene solo e esclusivamente in contesti sociali, culturali, economici, politici, religiosi ecc. possibilmente diversi, ben diversi da quello di partenza. Ed è sui livelli di conseguimento di questo obiettivo che si é chiamati a valutare l’essere o meno “antropologi”. Solo successivamente a questa fondante esperienza di terreno a immersione piena e integrale (almeno uno o meglio due anni), unica in grado di scuotere le fondamenta della socializzazione primaria, ci si può aspettare la realizzazione di lavori etnografici e antropologici stricto sensu anche lavorando sotto casa o in casa (autoetnografia). Tutto il resto è buono, ottimo, magari eccezionale lavoro e significativo per altre discipline ma non caratterizzante l’antropologia.
In questa prospettiva, non ha forse precedenti la cosiddetta “antropologia in Italia”, che risulta essere o “sotto casa” o decisamente “in casa”. La pletora di studi sulla migrazione condotti a casa o nella sede di conseguimento dei titoli di studio resta pertanto espressione secondaria dell’antropologia. Per non parlare poi di studi da parte di “immigrati italiani sud-nord” di seconda generazione che - una volta rappresentatisi come antropologi, o più spesso viceversa - si occupano di ricerca nella “casa del padre”. Relativamente agli studi sulle migrazioni, per esempio, in antropologia sarebbe più comprensibile uno studio sui processi migratori dal Sudan al Chad, o da Sumatra e Giava verso Timor ecc. Diversamente, nulla del genere, o quasi, è ancora riscontrabile nel resto del mondo antropologico.