Racconto di Fantascienza di Claudio Pauselli pubblicato in esclusiva da Agenzia Stampa Italia
Punto V.
Noi odiavamo i Vandor; i Vandor odiavano noi.
Tuttavia, il loro comandante ed il nostro non persero un solo secondo per sedersi al tavolo della trattativa.
Tanta sollecitudine da parte di Vandor, mi parve esagerata.
Malgrado lo scacco di Teti, metà della loro flotta era ancora efficiente e schierata a ridosso dei sistemi abitati; inoltre, i Vandor sono spaziali in gamba: non era detto che avremmo vinto noi.
L’Aquila, che sulle mie spalline era diventata rossa, non aveva migliorato il mio umore.
Mi sentivo inquieto, ripensando alle sue parole: “Presto come mi desideri, mi avrai” e mi chiedevo come l’avrei rivista stavolta: mi sentivo pervaso da una smania subdola.
Il Generale mi chiamò con precedenza assoluta e la navetta mi portò all’astronave ammiraglia prima di subito.
Fui introdotto nel quadrato ufficiali.
Stava seduto dietro al lungo tavolo semicircolare di finto onice; con lui, due ufficiali delle forze di sbarco, il comandante dell’ammiraglia, il comandante della flotta di Vandor e due suoi ufficiali subalterni.
Alzò lo sguardo all’interfono, dal cui video mi aveva poc’anzi riconosciuto e finalmente disse alla mia scorta di andarsene.
Si alzò in piedi e prese a passeggiare con aria assorta, lasciandomi in piedi davanti al tavolo il che, era un inequivocabile manifestazione d’antipatia nei miei confronti e segno che ero lì per ricevere ordini e nulla di più.
- Caposquadra – esordì – ti sarà sembrato strano che la flotta che ci fronteggia abbia così facilmente deposto le armi e il suo comando abbia accettato di avviare trattative...
Così é.. – dissi.
Beh – continuò lui – il fatto è che anche loro hanno un problema.
Il nostro stesso: i Prokklamaah.
Sapevo chi erano Prokklamaah: esseri semi vegetali di Vulpis XI, contro i quali ci stavamo battendo sui nostri confini astrali orientali.
- Il Contrammiraglio Ildaass Sakvva, della flotta di Vandor, rappresentante la nuova fazione..., pardon, Dinastia, dominante di Mondo Centrale, mi ha detto di essere in grado di imporre il cessare il fuoco a tutte le sue forze, che si oppongono alle nostre in tutti i settori, ma, per poterlo fare, richiede la nostra.. ehmm.. assistenza in una faccenda piuttosto delicata... Immagino possiate spiegare meglio voi, la situazione, contrammiraglio Sakvva... – disse rivolto al Vandor.
Il Vandor cominciò a parlare, lentamente.
- Forse, la storia che sto per raccontarle, le parrà assurda, comandante. – si interruppe per leggere nel mio volto, ma io non mossi un muscolo – Bene. – cominciò – Innanzitutto, deve sapere che secoli fa, una strana astronave giunse nel nostro sistema da.. chissà dove e, forse a causa di un qualche guasto, è rimasta bloccata intorno al nostro mondo.
Non abbiamo mai avuto particolari contatti con essa o col suo equipaggio, ma, per i nostri antenati essa divenne una specie di “carro celeste”, qualcosa di divino che permeò la nostra mitologia.
Ultimamente, però, le cose sono cambiate: da quando voi terrestri, avete lanciato la vostra offensiva contro di noi, sono cominciate strane “apparizioni”; contatti da parte di identità indefinite ed indefinibili con addetti dei nostri centri comando e di difesa; coi nostri stessi notabili.
Tutti tesi, tali contatti, a stabilire che cosa voi stavate facendo; fin dove eravate arrivati nella vostra avanzata verso Vandor.
Ora; è chiaro che questo manufatto vi ritiene una minaccia, comandante, come ho già spiegato al vostro Generale e sta, in qualche modo, cercando di accumulare informazioni, per cercare di difendersi.
Ha paura di voi: non può infatti sapere che status avrà presso di voi, se arrivaste a controllare il nostro mondo.
E.. comandante.. nessuno di noi, su Vandor, ha idea di cosa possa essere in grado di fare chi abita quell’astronave, di quali mezzi possa disporre..
Si può toglierla di mezzo – sorrise - ma non possiamo farlo noi: per molti, sul nostro pianeta, essa rimane un “carro celeste”, una luminosa manifestazione dell’Ineffabile.
Questa importante parte del nostro popolo non ha mai accettato la pura e semplice realtà tecnologica di quel manufatto e spinge il nostro Consiglio, tramite i suoi rappresentanti all’Emiciclo, che non sono pochi, a portare innanzi la guerra: per impedire che tale santuario venga profanato.
Eliminatela: eliminate questo relitto degli spazi e potremo avere la pace.
Il nostro mondo si libererà da una superstizione assurda e da una presenza via via sempre più ingombrante e sibillina e voi avrete l’alleato che vi serve per il vostro fronte zenitale contro i Prokklamaah!
Non c’è che dire... – mi venne da ridere – Questo rottame cosmico dev’essere abitato proprio da un mostraccio orribile e malvagio...
Il Vandor ebbe un sobbalzo alla mia battuta scettica.
- Non mi pare il caso di fare, come dite voi umani, dell’umorismo fuori luogo, comandante, vi prego..
- Ironia – gli dissi, acre – si chiama ironia..!
Cominciavo a capire da dove venisse, la mia.. Fortuna, mentre mi deliziavo nel guardarlo.
Era patetico, quel rettiloide, dall’aspetto umanoide, che cercava, con una smorfia della sua poco mobile bocca, di dissimulare l’espressione gelida dei suoi occhi azzurri e quasi cristallini.
- E’ una presenza inquietante, una spada di Damocle, direste voi , che oscilla, sospesa sul nostro mondo.
L’Ammiraglio, o Generale se volete, mi gettò uno sguardo tagliente: chiaro che non gli andavo a genio.
Per questa missione, quel che vi serve è tanta fortuna, oltre all’intera vostra Squadra d’assalto.
Vedremo se la vostra fama, di uomo abile e fortunato, ha ragione d’essere..
Mi sorrise, sbrigativo, alfine.
Mi irrigidii sull’attenti e salutai: mi sentivo confuso come non mai.
C’era qualcosa di platealmente stonato in quella storia, ma non riuscivo a capire cosa.
Realizzai che avevo davvero bisogno di fortuna, e tanta per venire fuori da quell’impiccio, ma avevo usata tutto quella che possedevo e non avevo idea di dove avrei potuto trovarne dell’altra.
Punto VI.
Le cose andarono male da subito.
Uno stormo di navi da caccia Vandor, che presidiava l’orbita bassa di Mondo Centrale, ci si buttò addosso senza tanti complimenti e la flotta che doveva appoggiarci (Vandor anch’essa) non si scomodò eccessivamente per proteggerci.
La nostra reazione fu rabbiosa, ma gelidamente ordinata.
Due nostri vascelli si dissolsero in pulviscolo astrale, ma non una sola unità da caccia Vandor sopravvisse all’attacco.
La flotta di scorta non si affrettò a raggiungerci ( evidentemente non avevano digerito la fine che avevano fatto i loro commilitoni) e, quanto a me, decisi di agire come se non ci fosse mai stata ( per quel che ci era servita).
Feci disporre le sei navi, di cui ora disponevo, a rombo ed iniziai un massiccio cannoneggiamento di rappresaglia contro la prima città planetaria che arrivò sotto i ventri delle nostre astronavi: tanto per fra capire quegli zucconi che non era bene seccarci ulteriormente.
Poi, il radarista mi avvisò che il manufatto alieno era in vista.
Il mio bozzolo da battaglia sapeva di lubrificante e di sudore.
La lampada di servizio si accese quasi subito, dispensando la sua luce sanguigna e pesante, mentre il portello plasticeramico si richiudeva sofficemente ed io mi legavo alle cinghie della nicchia di comando.
- Okay, uomini, fuori! - urlai nel microfono non appena, dai visori, vidi le saracinesche degli aeromobili aprirsi sulla china rossiccia dell’orizzonte di Mondo Centrale.
Fummo brutalmente scaricati fuori bordo dalle rotaie di lancio; ci trovavamo a circa venticinque chilometri dal bersaglio ed il mio bozzolo con la folgore effigiata sul retro, fu il primo ad allontanarsi, nel vuoto, verso di esso.
Ci trovavamo alla stessa altezza sul pianeta dell’astronave straniera: circa duecento chilometri.
Dai sottili schermi dei visori, che avvolgevano per intero il mio campo visivo, vidi le sottili unità della flotta Vandor di protezione, che ci aveva raggiunti.
Repressi la risata sarcastica che mi venne spontanea, dal momento che, pensai, erano di certo venuti a godersi lo spettacolo dei fessi che facevano lo sporco lavoro al posto loro, perché una struttura a stella, quadri radiata e costituita da elementi piramidali, mi comparve sulla prua.
Una di tali estremità, quella orientata verso il pianeta, era costituita da materiale traslucido, si sarebbe detto plastico, che lasciava intravedere un caotico e luminescente viluppo di cavi bulbosi; il resto della struttura era fatto di un acciaio strano, dall’apparenza porosa.
Nel complesso, quella nave era grossa parecchio e mi venne in mente che avevo con me un plotone, solamente: quaranta uomini.
Navigavo in testa alla formazione e tutto era tranquillo.
Troppo, per i miei gusti.
Un terminale d’attracco, sottile e illuminato da una luce vermiglia, ci si profilò dinanzi.
Procedevamo lentamente, in vista dell’avvicinamento finale, quando aprirono il fuoco contro di noi.
A quella distanza, mancarci era impossibile e la cadenza di tiro era semplicemente impressionante.
Gridai di accelerare e di seguirmi, ma mancavano ancora duecento metri, stando ai telemetri.
Eravamo troppo vicini per poter aumentare significativamente di velocità:
rischiavamo di venire annientati nello spazio.
Aprimmo il fuoco anche noi e sbuffi di materiale, trascinati dalla decompressione verso l’esterno, presero a slungarsi dall’interno dell’astronave.
Ero soddisfatto della precisione del nostro tiro, ma le cose per noi continuavano a non andar benne.
Una decina di bozzoli erano scomparsi subito dal mio monitor tattico ed altri continuavano a dissolversi velocemente.
Chissà dov’era la Fortuna? Non che avessi mai creduto in lei come tale, ma dov’era?
In realtà sapevo bene che era là dentro.
Per questo avevo voluto quella missione, malgrado il puzzo di bruciato che mandava.
La volevo.
Qualunque “cosa” ella fosse; la volevo.
Il volume di fuoco che si scaricava su di noi dal vascello immoto era sempre altissimo, mentre il nostro diminuiva.
Non avevo idea di quanti fossimo rimasti, quando finalmente arrivai con i superstiti, dentro al terminale.
Immobilizzai il mio bozzolo a mezz’aria e li contai: cinque uomini erano con me e li chiamai per nome, per rinfrancarli.
Li sentivo ansare, impressionati dalla disavventura, ma risposero all’appello.
Inspiegabilmente, invece di lanciare la solita sequela di ordini rabbiosi, come di solito avrei fatto, mi scoprii a cercare di rinfrancarli, in qualche modo ed a sorridere bonariamente della loro paura e mi sorprese quella mia reazione.
Non persi tempo a pensarci su, comunque e presi a scandagliare con i sensori, la struttura interna dell’astronave aliena.
Otto corridoi, dagli ingressi tondeggianti come fori di groviera e torti come budella, s’aprivano tutto intorno all’area del terminal.
Mi lanciai verso uno di essi a caso e mi separai così dai miei uomini, ma, sapevo, ci saremmo ricongiunti al centro della struttura, come previsto da procedura standard di invasione, se tutto fosse andato liscio.
Quell’accrocco non era costruito con criteri umani.
Pareva che pareti metalliche non esistessero in quel vascello.
Sottili diaframmi plastici, che costituivano, pareva, l’intera struttura interna della nave, delimitavano assurde geometrie abitative e andavano a pezzi quando il bozzolo li investiva.
Chi si annidava lì dentro non era umano di certo, visto in che razza d’ambiente viveva, ma, cosa fosse e chi fosse esattamente, stavo per scoprirlo, ormai.
Credevo che nessuno avrebbe ostacolato la nostra marcia ed invece strani esseri, chissà se viventi o robots, si materializzarono dietro e davanti a noi.
Reggevano strane armi dai profili massicci, da cui fuoriuscivano rossi boli di energia.
Ne seguì un combattimento spietato.
Distrussi due di quei tizi, poi mi allontanai e lasciai la grana ai miei uomini che, nel frattempo, mi avevano raggiunto.
Punto VII.
Il centro, il cuore della struttura, che raggiunsi dopo una discesa da incubo in una specie di budello torto e baluginante, consisteva in un enorme abside sferico: lo intravedevo di là dell’ultimo sottile velo plastico, che solo rimaneva a sbarrarmi il cammino.
Attesi per un po’ che i miei uomini mi raggiungessero, ma non arrivò nessuno.
Non erano semplicemente in ritardo, compresi: non ce l’avevano fatta perché “non dovevano” farcela.
Era un appuntamento prenotato solo a mio nome, quello.
Con rabbia, oltrepassai l’ultimo diaframma che mi separava dall’obiettivo, sfondando la paratia divisoria col bozzolo.
Appena nell’abside, disattivai la macchina, stupito dall’enorme spazio vuoto che mi attorniava e che, da dentro di me, la parte razionale della mia mente mi urlava, glacialmente terrorizzata, che non poteva essere dacché era troppo, troppo vasto quello spazio per poter essere contenuto in quell’astronave, per quanto grande fosse.
Solo dopo un poco, assimilato quell’avvertimento disperato della mia razionalità, armai i cannoncini.
A quel punto, la vidi: in piedi alla destra del mio campo visivo.
Mi chiamò, con il tocco dolce della sua mente e, di colpo, i miei pensieri, le mie paure, ammesso che ne avessi avute davvero, disparvero.
Non controllai nemmeno il rilevatore d’atmosfera; uscii dall’angusto portello del bozzolo, sospeso ad una ventina di centimetri sul pavimento fragile, con le antenne poggiate a raggiera per sostenerlo.
Mi aggiustai la “distruttiva” nella fondina della tuta e mi avviai verso di lei: per la rivelazione.
Non ricordo bene cosa successe in seguito.
Non la toccai neanche, credo, ma nell’attimo che ci trovammo seduti l’uno di fronte all’altra, io fui in lei e lei, in me.
C’era come un enorme cielo pregno d’azzurro e di viola, attorno e noi, seduti su di una scogliera di luce vermiglia, parte di un continente di luce vaporosa e ramata, parlavamo dell’amore e di noi.
E fu come pizzicare le corde di arpe eteree e rimanere ad ascoltare il tintinnio dolce di campanelle argentine e remote.
Mi resi conto che avevo raggiunto quel che da sempre avevo cercato, che nemmeno mai avevo avuto coscienza di desiderare: i miei sogni di dolcezza da sempre repressi e mi beavo del vasto spazio di quiete che ci
si apriva d’intorno.
Ci amammo e l’amai, solo carezzandoci con lo sfiorarsi gentile delle nostre anime, non so per quanto ancora.
Il tempo non esisteva, non c’era, né c’era mai stato là; c’era null’altro che lei: in me, nel mio essere.
Alla fine mi prese il volto fra le mani e mi baciò.
Come mi desideri, t’amerò – mi disse.
E tornai indietro, nel mio involucro di carne e di sangue, che avevo abbandonato in qualche landa dispersa nel tempo.
Ero come incosciente, stravolto, sbronzo; giacevo completamente abbandonato sul pavimento tiepido.
Ella aprì le cerniere della mia tenuta di volo, mi sfibbiai, maldestramente, gli stivaletti da combattimento.
Ella si tolse di dosso quel poco che aveva.
E mi si diede come la volevo.
E la mia magia fu completa.
La sua mente si aprì a me, così come il suo corpo e la mia, a lei.
Sentivo come se affondassi nell’acqua calda di una piscina d’alveare ed era un sensazione dolcissima.
Un vortice di calore mite ed una luminescenza smeraldo ci avvolsero, mentre eravamo sempre più profondamente l’una nell’altro.
Poi, il sogno divenne incubo.
Ci trovammo a ruotare bislaccamente in uno spazio oscuro e vuoto ed ella prese ad urlare di terrore.
Scomparve alla mia vista e mi ritrovai assediato da pensieri ostili, assassini e rabbiosi.
Orrori d’altri mondi sfilavano tutt’intorno a me, che cadevo verso un punto immensamente remoto, perso in quella oscurità.
Non si trattava di creature vive, compresi: non erano che registrazioni.
Ricordi di una mente enorme e complessa che voleva, soggiogarmi, prostrarmi ed uccidermi con la sua forza moltiplicata dalla rabbia.
Ed allora sorrisi, pur pervaso da un orrore oscuro, sorrisi, acre, a me stesso, compatendo la mia stupidità.
L’avevo scordato, dimenticato, accatastato in un angolo ozioso della mente come qualunque altro pensiero molesto ed ora s’era manifestato: il Custode.
L’entità sconosciuta e misteriosa ( le entità sconosciute e misteriose, forse) che abitava e governava quella Nave.
Era stata quella mente, quell’entità a portarmi là e, per farlo, aveva dato vita a quella apparenza che io avevo chiamato la Fortuna.
Avevo amato un fantoccio, cui io stesso avevo dato il nome; un’illusione sintetizzata apposta per attirarmi lì.
Il Vandor era stato chiaro: non appena le nostre armate avevano preso ad avvicinarsi al Mondo Centrale, la Nave s’era messa in agitazione; c’erano state apparizioni di altri emissari sintetici sul loro pianeta e poi, quando “ essa” ( la nave, l’Entità) aveva stimato avere abbastanza informazioni per procedere, aveva cambiato interlocutore, scegliendo un umano: me.
In qualche modo, realizzai, la misteriosa entità, era la Nave stessa.
Nessun’altra forma di vita: la Nave stessa era l’organismo che intendeva difendersi, per perpetuare se stesso.
Sì, alla fine mi fu rivelato da un flusso di visioni e pensieri vorticosi: l’astronave era un organismo biomeccanico, fermo da anni sui mondi di Vandor per una complessissima avaria ai propulsori e, riparare un’avaria di tipo biomeccanico, non è come stringere quattro viti.
Allontanare la minaccia umana era tutto ciò che poteva fare per impedire alle fazioni Vandor in lotta di giungere a minacciarla e guadagnare così altro tempo per continuare ad auto ripararsi.
Adesso, che aveva raggiunto il suo obiettivo ed i dati acquisiti su noi umani erano sufficienti e voleva liquidarmi: trasformare la mia mente in un opaco flusso di dati, di impulsi elettrici ed arruolarmi così per sempre in quell’esercito d’ombre elettroniche, i suoi sensori le comunicarono quanto quella sua vendetta, oramai fosse sterile: non aveva scampo, difatti, alle forze che la assediavano, stringendola da ogni lato del cielo.
Il pianeta sottostante, che era stato suo porto sicuro per tutto quel tempo, sarebbe divenuto la sua tomba.
Il suo lungo peregrinare fra le stelle finiva lì, ora; quella razza, che per secoli aveva guidata nel suo sviluppo e sulla quale aveva contato per poter riprendere il suo cammino negli spazi, un giorno, l’aveva tradita.
Era furiosa, sì: furiosa ed impotente.
Annaspai, come per tornare a galla, per emergere da quel mare d’odio; spalancai la bocca come per trarre aria ed urlare.
Non successe niente; niente.
D’improvviso, sentii come un taglio di coltello e come se il sangue mi colasse copioso, giù dalle cosce.
Fui nello stesso tempo proiettato verso l’alto (?), ad una velocità folle, verso un punto di luce vivida.
Mi ritrovai, dolorante e disteso là, dove l’avevo amata; nuovamente padrone della mia nozione di spazio e di tempo.
Ed ella era accanto me, stranita, pareva stesse soffrendo interiormente in maniera indicibile ed aspettava: aspettava la mia decisione poiché sapeva che ora sapevo tuttosu qella Nave, su di lei.
Fu allora che la presenza di un’enorme sfera color arancio si fece palese sopra le nostre teste, sporgente dalle pareti ricurve dell’abside e, dentro a quella sfera, quello che pareva un viluppo di cervelli oblunghi e cisposi si comprimeva e si dilatava, spingendo masse di un liquido denso ad azzurrognolo che lo avvolgeva, lungo tutto il volume del contenitore che lo rinserrava.
Quello era il Custode o i Custodi, finalmente lo (li) vedevo e lei, compresi, in qualche modo, m’aveva salvato dal suo ( dal loro ) furore.
L’orologio al polso sinistro, aveva il quadrante illuminato di rosso: avevo poco tempo perché stavano per richiamare il bozzolo all’astronave.
Respirai forte e scattai in piedi come una molla.
La tuta era a terra, floscia s spiegazzata, poco distante da dov’ero; piroettai, senza ragione, verso di essa e ne aprii la fondina all’altezza della coscia sinistra.
La tozza rivoltella mi riempì il pugno, la canna puntata su quell’obrobrio in salamoia.
Stavo per sparare, quando mi venne pensato che, se ella era davvero parte di quella mente, l’avrei uccisa.
La guardai; stava seduta immobile e si stringeva il vestito fine al suo corpo snello; i capelli neri, corvini le scendevano dinanzi al volto, immoti.
Pareva aspettasse, rassegnata.
Pensai che avrei potuto andarmene: che avrei potuto non uccidere, ma, se non lo avessi fatto io, ci avrebbero pensato le navi della flotta a farlo, comunque; la nostra e quella di Vandor.
Magari sarebbero arrivati fin lì con le squadre da sbarco ed io non avrei potuto fermarli: quel posto non era più tabù, ormai.
Per nessuno.
E se non mi interessava nulla di cosa ne sarebbe stato di quella specie di grande mente collettiva, dei mille modi in cui l’avrebbero esaminato, sezionato, fatto comunque soffrire, di lei, sì... mi interessava.
Sapevo quel che le sarebbe successo, perché era quel che era già accaduto alle donne di ogni razza in tutte le guerre quando, alla fine, si erano ritrovate ad essere facenti parte del bottino dei vincitori.
Non mi sentivo di spararle; qualcosa dentro di me, mi ripeteva che non dovevo farlo, che era un compito che non spettava più a me: la mia missione era conclusa a quel modo.
Quando scostai lo sguardo da quel viluppo pulsante, trovai le sue labbra accanto alle mie.
Nei suoi occhi c’era un’espressione che sapeva di falso e di ostile.
La sentii tremare, mentre l’abbracciavo, avidamente; sentii la sua destra risalire, rapida, la schiena fino al collo e le sue dita agili cercare la mia cervicale.
La sentivo ansante e che rabbrividiva di un gelo interiore.
Poi, sentii qualcosa defluire nella mia mente: pensieri in fuga, incoerenti e spaventati.
Compresi che c’erano due menti, adesso, in lei: una, la sua, limitata, ma che pure era riuscita a strappami a quell’abisso di oblio, opponendosi al suo padrone.
L’altra non le apparteneva: apparteneva a quel bolo aggrovigliato e circonvoluto, protetto da quella vasca di cristallo.
No, non era un essere autonomo: la sua vita dipendeva da quella Nave, da quella mente mostruosa ( forse biomeccanica anch’essa) e, tuttavia, il suo amore di fantoccio era sincero ed ingenuo ed autentico nondimeno.
Lasciai annegare la mia mente nel suo amore, che quasi mi dimenticai di sopravvivere.
No. Non potevo portarla completamente con me, ma, forse, parte della sua mente: la sua anima, il suo amore, avrebbe potuto rifugiarsi in me e continuare a vivere.
Lontana per sempre da quell’orribile burattinaio.
Sentii la sua mano, le sue dita sottili, cominciare a premere forte sulla vertebra ed una vertigine lancinante prese a tranciarmi la mente.
Io mi concentrai disperatamente, e, quando sentii l’altra parte della sua mente, i suoi pensieri caldi d’amore, bene dentro di me, tirai il grilletto.
Il colpo la scagliò lontano; la sua apparenza finì contro la parete ricurva in davanti a me, arse di un fuoco effimero, come quello di un fiammifero, annichilendosi.
Sentii la sua mente, la sua anima: la sentii aggrapparsi alla mia mente.
Davanti ai miei occhi, tutto si colorò di sangue e di nero e quindi la sentii scivolare via, inesorabilmente.
Inutilmente, lottai per trattenerla.
Caddi ginocchioni, in preda ad una nausea violenta e quindi carponi; il sangue mi usciva dalle orecchie e dal naso in lunghi rivoli smilzi.
Stranito, infilai tuta e stivaletti, che lasciai aperti e mi buttai dentro al bozzolo che si richiudeva.
Se avessi compreso solo un attimo più tardi, che la macchina si stava richiudendo, sarei stato abbandonato là dentro.
Mi legai sommariamente alle cinghie così com’ero e mi abbandonai ad un pesante torpore.
Punto VIII.
Il Generale, chiamatelo Ammiraglio se vi pare meglio, mi guardava, sardonico, mentre nella plancia della mia ammiraglia, gli uomini della Squadra mi gratificavano dei loro taglienti sguardi, carichi d’odio.
Per quel che mi riguardava, non mi riusciva di prendermela per quel il Comando ci aveva fatto e pensavo a lei: alla mia dolcissima amante senza nome, comprendendo che solo una creatura aliena, e fors’anche sintetica, aveva saputo donarsi e donarmi quell’amore che io mai avevo saputo potesse semplicemente esistere e che l’amavo e continuavo inutilmente a cercarla nella mia mente, nella mia anima.
Comprenderà, comandante che l’azione di cui è stato protagonista con la sua Squadra è, dal punto vista di molte delle fazioni Vandor di Mondo Centrale e condiviso anche da taluni ambienti dell’opinione pubblica confederale, inqualificabile.
Il fatto che sia stato compiuto durante un’azione di guerra e su sollecitudine, peraltro impossibile a rivelarsi, della fazione Vandor vincitrice, ha ben poca rilevanza.
Laggiù, nei sistemi confederali, abbiamo un’opinione pubblica multi planetaria piuttosto potente, di cui tenere conto, come lei sa... – mi prendeva in giro così di fino che non riuscivo nemmeno ad arrabbiarmi – dobbiamo punirla, per il momento, spedendo lei e la sua Squadra nei Cieli del Catino dove, pare, vi sia stato un sconfinamento di una squadra da battaglia dei Prokklamaah, ma è un provvedimento temporaneo.
Siete degli eroi da leggenda; al ritorno, sarete riabilitati ed i vostri meriti, abbondantemente riconosciuti.
I periodo dell’Alveare saranno soddisfatti naturalmente, fin da ora!
Per me ed i miei uomini, quella era una condanna a morte.
Ci consideravano intoccabili perché profanatori di un luogo sacro di importanza planetaria, poco importava se Vandor e se l’azione era stata originato da un ordine diretto.
E quel marchio sarebbe rimasto comunque addosso per sempre, a me ed ai miei uomini.
L’ipocrita opinione pubblica multiplanetaria dei mondi confederali ed i suoi esponenti, così lesti ad accaparrarsi al Mercato Esotico i beni ed i tesori dei pianeti depredati dalle astronavi della Guerra di Corsa, non ci avrebbero mai perdonato la razzia e la distruzione di un luogo di culto alieno, che tale poi non era e di cui a nessuno, in realtà, importava granché, ma che ci avrebbero fatto fare una pessima figura dinanzi al Consiglio Panrazziale del nostro settore stellare.
Ecco cos’era che mi era stonato nelle orecchie, quando ero stato chiamato sull’ammiraglia per quell’incarico.
Avevo fatto un errore e gli errori si pagano.
Il primo sergente sorrideva di cuore: sapeva che il mio posto stava per divenire suo ed aveva un’espressione di soddisfazione cattiva in volto.
“E’ il tuo momento, amico”, pensai ”Approfittane in fretta”, gli consigliai, sibilando fra me, mentre le mie sei astronavi puntavano le loro prore sulle Stelle del Catino ed i telescopi astrogatori inquadravano Regulus nei loro traguardi di navigazione.
Un’ultima cosa, Tam – aggiunse l’Ammiraglio – Nessuno, di coloro che entrarono là dentro prima di te, è tornato indietro, ci disse il Vandor, ricordi? E nessuno dei tuoi uomini ne è uscito, difatti – mi disse, sorseggiando, reggendola all’altezza del video, una coppa di vino rosso rubino di Elvirha IX – Come ne sei venuto fuori; cosa ti ha fatto davvero vincere anche questa sfida impossibile, Tam?
La tua proverbiale fortuna? - Rise.
Risero tutti, anche nell’emiciclo di plancia e capii perché proprio a me, il Generale, aveva ordinato di invadere il manufatto: ero così fortunato ed abile che avrei potuto soffiargli il posto, nel prossimo futuro, tanto stavo divenendo popolare nella Flotta.
Se la ridevano di gusto, grazie anche alla risata stridula del primo sergente, che diede il via all’esplodere di quell’allegria acre.
Avevo qualcosa da dire ai miei uomini, prima di rispondere al Generale e così mi volsi, guardandoli negli occhi.
Sono ancora il comandante di questa Squadra – dissi, anche se sapevo che, presto, qualcuno mi avrebbe sparato alla schiena e lo sapevano anche loro – E sino a quando non succederà, e voi sapete a quel che mi riferisco, io farò il possibile per strapparvi al limbo dove ci hanno destinati; è una promessa... – mi drizzai contro lo schienale della poltrona e mi volsi di nuovo verso il video di comunicazione – Quanto alla sua domanda, Generale - cominciai, guardandolo negli occhi, sorridendo – No; la fortuna non c’entra per niente in quel che è successo là dentro.. – gli dissi, e quel suo sorriso ironico gli morì sulle labbra, quando lesse nel mio volto il disprezzo che sentivo per lui – Forse quelli che vi si avventurarono prima di me ci contarono, ma non io; no.
Perché come lei ben sa, Generale, un soldato della Lunga Corsa non crede alla fortuna... Fine,
Claudio Pauselli
08-01-86/21-03-07
Per rileggere larima parte https://agenziastampaitalia.it/cultura/cultura-2/70321-racconto-di-fantascienza-la-fortuna-e-il-soldato-di-claudio-pauselli-prima-parte