(ASI) “La Legge di Bilancio 2026 si inserisce in una traiettoria che l’Italia conosce fin troppo bene. Una manovra fatta di piccoli interventi, bonus, aggiustamenti marginali e qualche sconto fiscale simbolico che produce l’effetto di distribuire consenso senza incidere sulle variabili decisive.
Non cambia la crescita potenziale, non migliora la produttività, non rende il Paese più attrattivo per chi lavora, investe o porta capitale umano.
È una politica che prova a tenere insieme tutto e finisce per non spostare nulla, lasciando invariata una pressione fiscale tra le più alte d’Europa.
Dentro questo impianto emerge però un’intuizione corretta, quella sulla spesa previdenziale. Il riconoscimento che occorra riequilibrare le risorse a favore di giovani, famiglie e lavoro, e non continuare a concentrarle su rendite protette, va nella direzione giusta. Ma l’impostazione resta incompleta. I risparmi potenziali rischiano di essere assorbiti nel bilancio generale invece di tradursi in una riduzione strutturale delle imposte. Una riforma che riduce la spesa dovrebbe avere un obiettivo chiaro: abbassare il carico fiscale su chi produce reddito, non alimentare nuova spesa discrezionale.
In questo quadro la rottamazione quinquies rappresenta l’ennesimo errore di politica fiscale. È una misura che promette pace ma rafforza l’idea che convenga aspettare la prossima sanatoria, indebolendo la compliance e la credibilità dello Stato. Il problema non è solo negli incentivi distorti, ma anche nei conti pubblici. Le valutazioni tecniche indicano una perdita di gettito già nel breve e nel medio periodo. Continuare a premiare l’inadempienza mentre lavoro e impresa restano tra i più tassati d’Europa mina l’equità del sistema e restringe le basi fiscali, senza risolvere il problema strutturale della riscossione.
Il paradosso è che l’Italia dispone di un margine di manovra molto più ampio di quanto si voglia ammettere. Il magazzino dei crediti affidati alla riscossione supera abbondantemente i mille miliardi e, pur con una quota rilevante di difficile recuperabilità, contiene una parte che potrebbe essere valorizzata. Proprio per questo avrebbe senso intervenire in modo selettivo, utilizzando strumenti di mercato come cessioni o cartolarizzazioni mirate, con perimetri rigorosi, governance solida e prezzi trasparenti. Non si tratterebbe di un condono mascherato, ma della valorizzazione di asset pubblici oggi improduttivi.
È evidente che operazioni di questo tipo pongono problemi tecnici e di finanza pubblica e richiedono grande attenzione. Ma è esattamente qui che serve politica economica. Selezionare i crediti effettivamente esigibili, costruire strutture compatibili con i vincoli contabili e destinare le risorse ottenute a un taglio fiscale permanente sarebbe una scelta molto più credibile che rinunciare a gettito con l’ennesima sanatoria. Invece di gestire il consenso nel breve periodo, si potrebbe costruire spazio per una riforma strutturale.
Il nodo centrale resta quello delle imposte. Il Paese non ha bisogno di mance fiscali o di benefici da poche decine di euro l’anno, ma di una riduzione netta e stabile della pressione su lavoro e impresa. Le analisi mostrano che gli effetti delle misure IRPEF tendono a distribuire benefici anche sui redditi medio-alti e questo non è uno scandalo se l’obiettivo è trattenere capitale umano e base imponibile. Lo scandalo è farlo senza abbassare davvero le aliquote marginali e senza una strategia di crescita coerente.
Una riforma credibile dovrebbe puntare a un’IRPEF più semplice e meno punitiva sul lavoro e a un’IRES che favorisca investimenti, autofinanziamento e capitalizzazione delle imprese. Senza imprese solide non c’è produttività e senza produttività non esiste welfare sostenibile. Detassare in modo strutturale non significa regalare, ma ridurre le barriere all’emersione per chi oggi resta ai margini e rendere non penalizzante restare o investire in Italia per chi ha maggiore mobilità.
La Legge di Bilancio 2026 contiene alcuni spunti corretti, ma resta prigioniera di una logica non liberale, orientata più alla gestione del consenso che alla liberazione della crescita. L’alternativa è chiara. Basta sanatorie cicliche, utilizzo intelligente e selettivo del magazzino della riscossione e un taglio vero e permanente di IRPEF e IRES. Non 200 euro l’anno, ma una riforma capace di cambiare davvero le decisioni di famiglie, imprese e talenti quando valutano se lavorare, investire e restare in Italia.”
Così nella loro analisi Dario Peirone, Direttore generale dell’Istituto Milton Friedman, Professore di Economia e Gestione delle Imprese ed Ezio Stellato, Responsabile delle Politiche fiscali dell’Istituto Friedman e Docente di Diritto Tributario.



