(ASI) Negli ultimi mesi il dibattito pubblico italiano si è polarizzato attorno a un termine che, fino a poco tempo fa, apparteneva quasi esclusivamente ai vocabolari dell’estrema destra internazionale: “remigrazione”.
Un concetto volutamente indefinito, proposto come soluzione rapida a questioni complesse come sicurezza, lavoro e identità nazionale. Il generale Roberto Vannacci, europarlamentare e il vicesegretario federale della Lega ne è diventato il principale promotore politico, arrivando a indicare come “monito” l’elezione del “sindaco musulmano a New York”. In realtà non è stato eletto alcun “sindaco musulmano”, ma un cittadino americano e politico newyorkese, Zohran Mamdani, scelto dagli elettori per la solidità del suo programma e non per la sua fede religiosa.
Un fatto semplice: quando si vuole alimentare timori e risentimento, la precisione diventa un dettaglio sacrificabile.
IDENTITÀ OCCIDENTALE: UN’ARMA RETORICA, NON UNA CATEGORIA ANALITICA
Tra i pilastri della retorica pro-remigrazione figura la difesa della cosiddetta identità occidentale, intesa come un’entità uniforme, immutabile e minacciata. Una visione comoda ma infondata: la storia dell’Occidente è una storia di incroci, contaminazioni culturali, migrazioni e trasformazioni continue. Parlare di “cultura dominante” da proteggere significa ignorare secoli di evoluzioni e ridurre la complessità sociale a un insieme di slogan privi di aderenza storica.
Confondere cultura e tradizione può essere efficace politicamente, ma produce una semplificazione fuorviante: ciò che muta non è necessariamente un pericolo, spesso è un adattamento fisiologico della società.
IL CASO SADIQ KHAN: L’ISLAMIZZAZIONE CHE NON ESISTE
Tra gli esempi più sfruttati dai costruttori di paure vi è Sadiq Khan, sindaco di Londra dal 2016 e rieletto per tre mandati consecutivi. Khan è un politico laburista britannico che ha convinto gli elettori con proposte e risultati, non con identità religiose. Nato a Londra da una famiglia pakistana musulmana e numerosa e cresciuto in un alloggio popolare, ha saputo interpretare i bisogni di una delle metropoli più dinamiche del mondo.
Se la logica dei sostenitori della “remigrazione” fosse fondata, Londra sarebbe oggi un avamposto teocratico. Invece, con Khan, la capitale britannica ha più piste ciclabili che minareti, più bus elettrici che turbanti, e nessuna traccia del fantomatico “piano di islamizzazione”. Le domande che smontano la narrativa catastrofista sono elementari:
– La City è crollata?
– Oxford Street è invasa dai cammelli?
– Il Ramadan è diventato un obbligo per decreto?
La risposta è sempre la stessa: no. Londra si è modernizzata soprattutto sul fronte della mobilità sostenibile e dell’efficienza urbana. Il resto è propaganda.
LA FAVOLA DEI “POSTI LIBERATI” E LA REALTÀ DEI SETTORI PRODUTTIVI
In Italia vivono circa 6,5 milioni di immigrati. La teoria secondo cui una loro espulsione creerebbe automaticamente nuovi posti di lavoro per gli italiani non ha basi economiche. Basta osservare i settori in cui la manodopera straniera è oggi essenziale: agricoltura, logistica, edilizia, assistenza familiare, ristorazione. Sono comparti già afflitti da una carenza strutturale di lavoratori italiani. Senza il contributo degli immigrati, intere filiere rischierebbero il collasso. Chi si occuperebbe della raccolta dei pomodori a Villa Literno, Castel Volturno o della raccolta delle mele nelle campagne del Nord Italia, se non ci fossero gli immigrati? Sono lavori faticosi e indispensabili, che già oggi soffrono di una grave carenza di manodopera.”
Forse Vannacci – insieme a chi continua a sbandierare la remigrazione come soluzione miracolosa – dovrebbe ricordare che proprio il governo di cui fa parte ha autorizzato per il 2026, 88.000 ingressi di lavoratori stagionali nei settori agricolo e turistico. Altro che espulsioni: senza manodopera straniera, i campi resterebbero incolti e gli alberghi vuoti. È la prova lampante che la propaganda anti-immigrati si scontra con la realtà dei fatti e con i bisogni concreti del Paese. Poi diciamo chiaramente, dal punto di vista fiscale, il quadro è altrettanto chiaro: gli immigrati regolari versano ogni anno circa 16 miliardi di euro di contributi all’INPS e ne ricevono in prestazioni circa 11. Il saldo è positivo e rappresenta un supporto concreto al sistema previdenziale italiano.
La domanda è inevitabile:
– Le aziende potrebbero sostenere i costi di sostituzione della forza lavoro immigrata? Difficile, senza perdere competitività o chiudere.
– L’espulsione di milioni di persone avrebbe impatti economici? Sì, e sarebbero pesanti: meno consumi, meno produzione, meno contributi, meno crescita.
Un politico responsabile dovrebbe spiegarlo con onestà. Ma, tra complessità e propaganda, la seconda risulta spesso più remunerativa sul piano elettorale.
PERCHÉ ALCUNI PARTITI E POLITICI FANNO APPELLO ALLA “PANCIA”?
Perché funziona.
La paura mobilita più dei dati.
L’indignazione è più immediata del ragionamento.
Un nemico immaginario – lo straniero, il diverso, il “non occidentale” – risulta più semplice da indicare dei veri nodi strutturali del Paese.
Questa strategia si nutre di tre fattori:
- Semplificazione estrema, che evita analisi approfondite.
- Fragilità sociale ed economica, che rende parte dell’opinione pubblica più vulnerabile ai messaggi identitari.
- Manipolazione dell’identità, presentata come un castello fragile, pronto a crollare alla prima contaminazione.
È un meccanismo antico: creare problemi immaginari per non affrontare quelli reali.
LA VERITÀ CHE LA PROPAGANDA NON DICE
La società italiana non è minacciata da immigrati, sindaci musulmani o culture esterne. È minacciata da:
– una classe dirigente spesso incapace di proporre politiche razionali;
– un dibattito pubblico frammentato e dominato dagli slogan;
– la manipolazione di paure legittime trasformate in ostilità;
– un indebolimento progressivo dell’educazione civica e culturale.
Il tema non è difendere un’identità italiana astratta, ma impedire che venga usata per dividere il Paese tra “noi” e “loro”.
Ha ragione Roberto Segatori, sociologo e politologo, quando nel volume La sociologia dei fenomeni politici osserva che la sociologia politica non si limita a individuare chi detiene il potere. Il suo compito è ben più ampio: analizzare come e perché i cittadini accettano, legittimano o contestano l’autorità, e quali processi sociali alimentano il consenso o il rifiuto delle istituzioni. Un approccio indispensabile per comprendere fenomeni politici che, negli ultimi anni, hanno trasformato profondamente il panorama europeo: dalla crescita della Lega in Italia al consolidamento del Rassemblement National in Francia, dall’ascesa dell’AfD in Germania fino alla forza crescente dei movimenti nazional-populisti in Spagna. Non si tratta solo di partiti, ma di segnali evidenti di un mutamento culturale e sociale che richiede strumenti interpretativi adeguati.
Ed è proprio qui che la sociologia politica mostra la sua utilità: capire non solo chi governa, ma perché sempre più cittadini decidono di affidarsi a forze che promettono rottura, identità e protezione in un contesto percepito come instabile. L’Italia non ha bisogno di espulsioni di massa. Ha bisogno che la politica, e in particolare i partiti, tornino a concentrarsi sui fatti concreti, sulla responsabilità e su un minimo di razionalità nelle scelte. Solo così si può affrontare davvero la complessità del presente.
Laurent De Bai



