Gentiloni al Corriere della Sera: “contro i terrorismi fondamentalisti diplomazia e aiuti umanitari, ma teniamo presente anche l’opzione militare”.

(ASI) La minaccia verso tanti cristiani in varie parti del  mondo  “è gravissima” e richiede uno sforzo maggiore per superare l’antico “male europeo, quella miscela tra egoismo e ignavia che spinge a voltare lo sguardo dall'altra parte”.

Lo dice il ministro degli esteri italiano, Paolo Gentiloni,  in un’intervista al Corriere della Sera. La prima cosa da fare, per il titolare della Farnesina, è “dire le cose come stanno”   e uscire dal silenzio perché l’attuale persecuzione dei cristiani riguarda “la nostra identità e le nostre radici”. Il silenzio non paga, come non pagò vent’anni fa l’inerzia europea contro le truppe di Ratko Mladic che massacrarono ottomila bosniaci musulmani a Srebrenica.  Poi, Gentiloni richiama alcune iniziative già in atto, anche se, secondo lui, poco pubblicizzate dai media, come la seduta speciale del Consiglio di sicurezza dell'Onu del 27 marzo scorso, in cui il segretario generale Ban Ki-Moon ha proposto di inserire l'intolleranza religiosa tra i parametri che determinano le accuse di genocidio verso singoli Paesi. O, anche, la decisione del Vicariato di Roma di destinare tutte le collette pasquali raccolte nelle chiese al cristiani dell'Iraq. E, se sul territorio italiano fare di più vuol dire anche proteggere le minoranze religiose, come quella ebrea, che potrebbero essere oggetto di attacchi; per Gentiloni non si può prescindere dall’opzione militare: “per contrastare il terrorismo è inevitabile il risvolto militare. Qualcuno potrà scandalizzarsi, ma questi gruppi vanno affrontati anche sul piano militare. Non userò la parola combattere, altrimenti mi ritrovo nei panni del crociato”.

L’Italia, d’altronde, è già impegnata, soprattutto in Iraq e in Siria, in una coalizione militare anti Daesh (Gentiloni usa questo termine anziché quello di Isis come “gesto di controinformazione rispetto a chi si attribuisce il ruolo di stato islamico e si autoproclama califfo”). E, aggiunge, in futuro si potrebbe valutare l'opportunità di estendere l’impegno armato in Libia o in Nigeria. E una dimensione militare italiana c’è già anche in Somalia, dove i carabinieri italiani sono impegnati per contribuire alla formazione e all'addestramento delle forze armate locali che devono combattere proprio contro i responsabili della strage di Garissa.

Ma l’azione anti terrorismo deve per Gentiloni necessariamente svilupparsi anche su un altro versante, quello del sostegno a “chi, nell' enorme sfida politico-culturale in atto dentro il mondo islamico, si impegna contro il terrorismo”.  Gentiloni riferisce che, dai colloqui da lui avuti con le autorità politiche e religiose mediorientali, emerge forte la loro consapevolezza di doversi impegnare in prima linea: dal re di Giordania, al presidente egiziano Al Sisi, all'Imam di Al Azhar, Sheikh Ahmed al Tayeb. “E per le stesse ragioni, aggiunge il ministro, dobbiamo cercare di favorire, per quanto è nelle nostre possibilità, una convivenza tra sunniti e sciiti”.

In concreto, sia l’opzione militare, sia quella degli aiuti umanitari, richiedono un investimento dell’Europa in risorse materiali e finanziarie. E l’investimento presuppone che l’Europa sappia uscire dalla visione del proprio orticello chiuso per capire che attualmente l’attacco ai cristiani è uno scontro di civiltà con una duplice faccia. Da un lato, i “cristiani visti come identificazione dell'Occidente, quindi bersaglio anche dove sono maggioranza, come in Kenya”. Dall’altro, “i cristiani quando sono minoranza, oggetto di intolleranza come in Pakistan”. Due facce della stessa medaglia, due aspetti convergenti nello stesso processo che mette a rischio di scomparsa i cristiani in alcune zone del mondo. Il fenomeno richiamato anche da Papa Francesco che, parlando dei cristiani del Medio Oriente e, in particolare, dell’Iraq (dove  in dieci anni sono scesi da 1,5 milioni a meno di 300.000) li ha definiti “un piccolo gregge sul quale grava una grande responsabilità”.

Per Gentiloni, il pericolo di una confluenza dei  diversi gruppi jihadisti nel Daesh al momento è prematuro da ipotizzare, secondo le informazioni in possesso ai governi occidentali. Ciò che accade è, piuttosto, per il ministro, che anche altri gruppi, come  Boko Haram, tendano a confondersi e nascondersi dietro le insegne del  Daesh, che in questo momento hanno un impatto mediatico sicuramente massimo.

Nell’intervista al Corsera, Gentiloni non manca, da ultimo, di dire la sua sull’accordo con l’Iran sul nucleare e sulle veementi reazioni israeliane (il premier Netanyahu ha affermato che, con l'intesa, miliardi di dollari finanzieranno in futuro il terrorismo globale).

In continuità con i suoi predecessori ala Farnesina, Gentiloni rivendica che l'Italia è stata sempre favorevole al raggiungimento di un accordo sostanzialmente soddisfacente “e certo, precisa, non per astratto amore del negoziato”. Gentiloni si dice d’accordo con la valutazione del governo americano, secondo cui son stati gettate le fondamenta per un buon accordo. E conclude “capisco le preoccupazioni israeliane, ma escludo che Netanyahu possa avere nostalgia di Ahmadinejad. Se l'accordo verrà definitivamente concluso a giugno, sono certo che stabilizzerà l'Iran e favorirà una sua evoluzione in una direzione meno pericolosa per Israele”.


Redazione Agenzia Stampa Italia

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