Recensione di “Storia della filosofia indiana” di Giuseppe Tucci

storia filo india 1(ASI) Scritto nel 1957, questo testo è di un’attualità disarmante fin dall’introduzione: in essa l’autore parla di un avvenimento importante e cioè l’ingresso dell’Asia nella Storia. Dal Rinascimento, con le migliorie nel campo della ricerca scientifica, l’Occidente riuscì a imporre il proprio dominio sull’Oriente.

Nacque perciò l’idea che l’Asia fosse una terra di nessuno e che l’Oriente fosse senza storia, quando in realtà non è così: basti pensare alle dinastie cinesi, a quelle Maurya, Gupta e Moghul in India. Fin dalla preistoria dall’Asia sono partite migrazioni di genti, sia per popolare che per devastare, e addirittura la Pax Romana avrebbe potuto congiungersi con la Pax Sinica se in mezzo non ci fosse stato il regno dei Parti.

Lungo le vie meridionali si compiva il cammino inverso tramite l’impresa guidata da Alessandro Magno; insomma, tutti questi fatti, a detta dell’autore, sono sufficienti per mettere in luce il legame fra Occidente e Oriente. Tucci, nello specifico, usa l’espressione “oggi che l’Asia risorta a noi si contrappone, decisa a difendere, a qualunque costo, la propria autonomia”, con molta probabilità riferito alle lotte per l’indipendenza. Tuttavia, si potrebbe dire oggi come negli anni Cinquanta, pesano sia l’approssimazione che la nebbia della leggenda. Bisogna riconoscere che nelle università asiatiche si studia la filosofia europea e non sempre avviene il contrario; addirittura ci furono legami fra la teosofia indiana e il mondo grecoromano. Persino l’impero iranico (persiano), più che separare, era occasione di incontro fra la cultura greca e quella indiana; chiaramente dopo la conquista da parte di Alessandro Magno questi contatti diventarono più stretti. Con l’Impero Romano l’Urbe stabilì degli empori in India presso l’odierna città di Pondichery e diventarono frequenti le ambascerie fra i principi dell’Oriente e la corte di Roma. Tuttavia, anche se le domande sono quasi sempre le stesse visto che i problemi dell’uomo sono identici, le due tradizioni filosofiche si sono sviluppate in modo autonomo.

Tanto per cominciare, la speculazione indiana è “terapeutica” e soteriologica: mira quindi a salvare l’uomo, nello specifico tramite la pratica religiosa, la devozione, la via dello Yoga e la conoscenza. L’eccezione è il Trattato di Scienza Politica del Ministro di Chandragupta (Maurya) la quale riduce a tre le scienze: ricerca e investigazione (divisa in Sankhya, Yoga e Materialismo ma diversa dai Veda), agricoltura e commercio e infine scienza politica e arte di governo. Il nome comune per designare un indirizzo di pensiero è “darsana”, che per estensione si dice anche “siddhanta” (lett. “documento”, poi “tesi” e “sistema”); dalla conoscenza logica della verità si deve passare al suo possesso e al suo interramento che trasformerà la vita e realizzerà il passaggio dal piano del divenire (“samsara”) a quello dell’essere (“nirvana”) oppure all’identità con l’Assoluto. In generale i sistemi filosofici si dividono in due categorie: gli eterodossi (che negano cioè la rivelazione vedica, vale a dire Buddismo, Giainismo e i materialisti) e gli ortodossi (che poggiano su di essa, ossia Sankhya, Yoga, Purvamimamsa, Uttaramimamsa, Nyaya e Vaisesika). Quando le varie correnti di pensiero furono codificate restarono chiuse in se stesse; da questa situazione nascono i sutra, parola che vuol dire brevi sentenze. Prima di giungere all’esaurimento la filosofia indiana non si era di certo tramandata inerte di generazione in generazione. Per errore si insiste sul carattere ascetico della speculazione; non c’è dubbio che le correnti mistiche abbondino, ma di certo non sono le sole. Piuttosto è importante l’arte della controversia; ogni argomento viene enunciato, definito ed investigato a fondo. Insomma, la letteratura filosofica dell’India è una delle più elaborate, peraltro basata sul dualismo fra il mondo della natura (il divenire) e la realtà suprema immota. Le culture che hanno concorso a questa speculazione sono state sia l’indoaria, la cui magia vedica era liturgica, e quella autoctona dravidica che invece ne praticava una di tipo psicologico.

Seguono poi i singoli capitoli in cui vengono spiegate le linee generali della letteratura filosofica indiana.

1) Brahmana: l’età della composizione si aggira attorno al 1000/800 a.C., si tratta di una letteratura vasta di contenuto maggiormente realistico con attenzione incentrata sul sacrificio. La mitologia dei Veda si ordina sotto un Dio supremo (Prajapati) da cui nasce il mondo. La speculazione che non si stacca dal mito si separa nelle Upanisad, che vengono fatte risalire al VI sec. a.C. La cultura degli indigeni finì col fondersi con quella degli Arii e ci mise del suo. Le Upanisad danno il ruolo del principio di tutto al soffio. Esiste inoltre un principio permanente, l’atman, misteriosa presenza immune da spazio e tempo.

2) Il Jainismo: chiamato così dall’epiteto del fondatore (“il vittorioso”). Fu codificato nel V sec. d. C. e le opere erano scritte in pracrito, una lingua dialettale. Si può definire un pluralismo dualista in cui la realtà è divisa in due gruppi opposti: la forza vita e e la sostanza inanimata.

3) Il Buddhismo: nato nel VI/V sec. a. C. e denominato in questo modo a causa dell’epiteto del fondatore (“lo Svegliato”) il cui nome vero era Siddharta, un personaggio storico con molti elementi leggendari. In questa religione/filosofia si distinguono due correnti: il Grande Veicolo (Laica) e il Piccolo Veicolo (monacale).

4) i materialisti: non negano di certo la tradizione vedica, ma la loro negazione riguardava altri principi (ad esempio il karma). Non tutti gli indirizzi avevano contenuto filosofico, inoltre i materialisti erano abili sofisti.

5) il Sankhya (IV/V sec. d. C.) e lo Yoga: il primo nega l’esistenza di Dio, il secondo la ammette, affonda le proprie radici nel terreno magico comune al Taoismo e si basa sugli Yogasutra (non più antichi del VI sec.)

6) Nyaya e Vaisesika, due sistemi che finirono per completarsi. L’esistenza delle anime è dimostrata dall’inferenza.

7) La Mimamsa: un sistema che si riallaccia ai Veda ma senza lo slancio mistico e la poesia, dunque si tratta di un pragmatismo liturgico. Domina il Karma e gli Dei sono un puro nome in caso dativo ai quali fare i sacrifici.

8) il Vedanta: prende le mosse da alcune Upanisad, ma si profilarono varie interpretazioni tra cui il Vedanta di Sankara, secondo cui in virtù della Maya (ignoranza) l’Uno appare molteplice. La parte seconda, invece, è più dettagliata e l’autore affronta i vari problemi secondo le scuole appena spiegate, e cioè la conoscenza, i mezzi della medesima, Dio, l’Io, realismo ed idealismo, la fisica, la legge di casualità, gli universali, il tempo e lo spazio, il karma, la parola e infine l’estetica. In quest’ultima sottosezione la parola indiana rasa è accostata all’omologa tedesca Stimmung: entrambe si esplicano nell’azione, nella danza e nel verso.

G. R.

 

 

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