Stoner di John Williams, recensione.

(ASI) Nel 1965 John Williams, professore di letteratura inglese all'Università del Missouri pubblicò Stoner. Vendette duemila copie. Niente di che.

A distanza di quasi cinquant'anni è divenuto un best sellers. Nel 2012 Fazi Editore lo pubblica in Italia. La storia di un ricercatore universitario destinato all'agraria che, in itinere, viene folgorato dalla letteratura e ci si gioca la vita. Letteratura inglese medievale. Come Williams, l'autore del romanzo, ma anche come Tolkien. La materia, evidentemente, ispira e feconda ancora i letterati moderni. Ma in cosa risiede il grande successo del romanzo? Cos'ha di particolare Stoner, tanto da attirare col passaparola migliaia di lettori che ne rimangono affascinati? La profondità. John Williams porta il racconto nella vita profonda del personaggio. Non esiste un'esistenza così povera da non essere affascinante, se raccontata al modo di Stoner. Qualunque uomo, anche il più banale e noioso, se lo racconto dal punto di vista scoperto da Williams, mi apparirà per quello che è veramente, unico, irripetibile, ineguagliabile. Ecco perché Stoner ha cominciato ad affascinare quasi cinquant'anni dopo. Nel 1965 era troppo presto. Nessun lettore di quel tempo si identificava con un uomo dalla vita mediocre e piatta. I quarantenni erano reduci della seconda guerra mondiale. Veri e propri sopravvissuti ad una strage planetaria. I giovani erano intenti a morire in Vietnam o ad evitare la leva anche a costo di andare in galera o di scappare in Canada. Questa versione americana dell'Ulisse di Joyce all'epoca non poteva avere fortuna. Ma cosa è cambiato oggi? Siamo più sensibili? Abbiamo una maggiore predisposizione alla letteratura? Sarà che appena apriamo il libro subodoriamo, intuiamo, percepiamo che tra quelle trecento pagine troveremo una vita non troppo dissimile dalla nostra?
Ilaria Delicati - Agenzia Stampa Italia

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