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TAV, questione di democrazia.

(ASI) Riesplosa la violenza in Val Susa, con tensioni tra manifestanti e forze dell'ordine, contusi, arresti. Sorge spontanea una domanda. Perché arrivare a tanto per una linea ferroviaria?  Chi manifesta grida all'esproprio delle terre e all'inutilità di un progetto che, tra vent'anni e a lavori ultimati, risulterà forse obsoleto. Legittimo contestare, siamo in una democrazia e l'opinione, per fortuna, non è un reato.

Ma proprio perché siamo in una democrazia lecito è un dissenso che non leda alla Collettività, non crei danni e perdite al Paese, sia comunque rispettoso di una scelta politica presa da governi democraticamente eletti.
Parliamoci chiari, quella della Val Susa è una storia che non è cominciata ieri, anzi! Se ne parla ormai da quasi vent'anni e, polemiche a parte, rappresenta una grande possibilità per la Nazione, sia dal punto di vista dell'industria strategica, che da quello occupazionale, prima e dopo i lavori di costruzione.

Non fa bene sentire gli amministratori dei paesi montani del Piemonte parlare di perdite per trecentocinquantamila euro al giorno, causate dai blocchi organizzati da NoiTav. D’altronde, quale turista accetterebbe di spendere denaro in un'area così fortemente sottoposta a tensioni e con frequenti disagi sulle linee di comunicazione?

Spese enormi che gravano sui privati, suoi comuni e, naturalmente, sui lavoratori, costretti ad essere licenziati o messi in cassa integrazione.

Come abbiamo detto all’inizio lecito è manifestare disappunto, criminale mettere a rischio il futuro di migliaia di connazionali, molti dei quali operatori stagionali che fanno dei guadagni dei mesi invernali la primaria fonte di reddito.

Poi i pendolari che, nelle ultime settimane, hanno dovuto sopportare ritardi, con collegamenti soppressi causa degli attacchi dei manifestanti alle stazioni ferroviarie, con binari bloccati e danni alle infrastrutture.

Soldi e tempo persi dai contribuenti, ora costretti a ripagare con le tasse l’operato non ortodosso dei soliti facinorosi.

L’immagine di Roma messa a ferro e fuoco lo scorso ottobre è ancora viva in tutti noi, come viva è la rabbia per dover risarcire una giornata di ordinaria follia dominata da centri sociali e vandali che usano la politica come pretesto per generare disordini.

Ma le conseguenze di comportamenti ben oltre il limite della legalità non si fermano ai risarcimenti. Le manifestazioni di piazza italiane sono ormai preda dei violenti. Il sacrosanto diritto di palesare pubblicamente dissenso o soddisfazione, di urlare rabbia e di coinvolgere in marce pacifiche e civili cittadini e istituzioni è ormai decaduto. Non esiste corteo oggi che non veda la contrapposizione o l’egemonia dell’ala più oltranzista dell’ultra sinistra, con scontri, tensioni, ferimenti.

Il semplice cittadino che, stufo della crisi o di un sistema politico che non sente più suo, desideroso di scendere in piazza è costretto a fare dietro front, nel terrore di incappare in un incappucciato armato di spranga, oppure di trovarsi coinvolto in una carica della polizia e di essere ferito nella mischia, insieme a coloro i quali, piuttosto che trovarsi in strada, dovrebbero essere rinchiusi in galera.

Zone militarizzate, paura che ogni evento possa trasformarsi in guerriglia urbana. E’ dunque questa la democrazia di no global e No Tav? E’ giusto pretendere che la gente comune sia costretta a pagare le conseguenze di atteggiamenti incivili ed indecorosi? Dov'è la tanto osannata attenzione al futuro del 'popolo e del Paese'?

Retorica. Parole al vento di giovani romani, napoletani, siciliani, milanesi che, anziché occuparsi delle problematiche dei propri territori, si riversano in città o valli a seminare il panico. I centri sociali propugnano l'odio ai borghesi e la difesa dei proletari, ma in realtà i veri borghesi sono coloro che possono permettersi di non lavorare e dedicare tempo e risorse al caos e alla violenza fine a se stessa.

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