(ASI) Le parole del cardinale Pietro Parolin non sono solo un appello alla pace: sono un richiamo alla coscienza collettiva. In un tempo in cui la diplomazia internazionale sembra spesso piegata agli equilibri di potere, il Segretario di Stato vaticano ha scelto di parlare chiaro.
Ha condannato senza esitazioni l’attacco terroristico di Hamas, ma ha anche avuto il coraggio di denunciare la sproporzione della risposta militare israeliana e di chiedere, con fermezza, che il popolo palestinese venga finalmente incluso nei processi di pace.
Non è una posizione comoda. Non lo è mai quando si cerca di difendere la dignità umana al di là delle bandiere, delle alleanze e delle narrative dominanti. E infatti, la reazione di Israele non si è fatta attendere: accuse di “equivalenza morale” e di “relativismo etico” sono state lanciate contro il cardinale, come se il riconoscere il dolore di tutti fosse una colpa.
Ma è proprio qui che si gioca la credibilità della diplomazia: nella capacità di vedere l’umanità anche dove la politica vorrebbe imporre il silenzio. Parolin non ha giustificato il terrorismo. Ha semplicemente ricordato che la pace non si costruisce ignorando una parte del conflitto, né si difende la sicurezza sacrificando ogni principio di proporzionalità.
In un mondo che si polarizza sempre di più, dove il dibattito pubblico si riduce spesso a tifoserie ideologiche, servono voci come quella del cardinale. Voci che non si piegano alla convenienza, ma che si alzano per dire che ogni vita conta, che ogni popolo ha diritto alla dignità, e che la pace non è una concessione: è un dovere. La Santa Sede ha parlato. Ora tocca alla politica decidere se ascoltare.


