Tibet, cinquant'anni di autonomia e sviluppo

(ASI) Il primo settembre prossimo la Regione Autonoma del Tibet festeggerà il cinquantesimo anniversario della sua istituzione.

Reincorporato alla Cina nel 1951, infatti, nel 1965, dopo una fase di transizione, il Tibet ha solidificato, con il riconoscimento dello status di autonomia, le fondamenta storiche della riforma democratica del suo sistema politico. Dopo secoli di teocrazia, povertà popolare diffusa e particolare arretratezza, questa complessa regione della Cina ha potuto abbracciare il generale processo di rinnovamento del Paese godendo, malgrado le difficoltà iniziali e gli scontri nel periodo della Rivoluzione Culturale (1966-1972), di un epocale sviluppo economico e sociale.

Ancor oggi all'estero si parla molto del Tibet come di una regione estranea al resto della Cina - un falso storico che ignora ad esempio le relazioni e gli intrecci politico-culturali durante la Dinastia Tang - o di un'area colonizzata ed invasa dai cinesi di etnia Han - altra insensatezza smentita dai censimenti locali. Sono in pochi a conoscere la situazione reale del Tibet fuori dalla propaganda di alcuni circoli politici e strategici occidentali, che ancora non hanno perdonato a Pechino di aver estromesso le proprie diplomazie e i propri eserciti dalla regione, sradicandone i tentacoli del feudalesimo e di oltre un secolo di colonialismo.

 

L'"inevitabile sviluppo" della regione

Nel 2013 il PIL del Tibet ha raggiunto un volume pari a 80,7 miliardi di yuan (circa 11,29 miliardi di euro), aumentando di 626 volte rispetto al dato del 1951. Tra il 2009 e il 2013, il tasso di crescita dell'economia regionale si è mantenuto su un valore medio del 12,3%, che ha consentito al reddito pro-capite di toccare mediamente quota 20.023 yuan nelle realtà urbane e 6.578 yuan nelle campagne. Nell'aprile 2015, il governo cinese ha pubblicato l'ultimo libro bianco dedicato alla regione, dal titolo emblematico Il cammino del Tibet verso lo sviluppo è guidato da un'irreversibile tendenza storica. Secondo il rapporto, in questa fase "la stragrande maggioranza dei tibetani ha ormai abbandonato la povertà che li ha assillati per secoli e oggi possono godere di una vita relativamente confortevole". I progetti di edilizia popolare in favore di agricoltori e allevatori iniziati nel 2006 "sono stati completati". Sebbene di dimensioni mediamente modeste, "460.300 nuove abitazioni" permettono oggi a 2,3 milioni di persone residenti nei villaggi e nelle campagne di vivere sotto un tetto sicuro, in appartamenti moderni forniti dei servizi essenziali.

Il generale incremento della qualità della vita ha portato l'aspettativa media di vita a 68,2 anni, di fatto raddoppiata rispetto ai livelli dei primi anni Cinquanta, e ha triplicato il tasso demografico in una popolazione che oggi conta circa 3,12 milioni di unità, di cui il 90,48% sono tibetani etnici. 

Anche l'istruzione ha fatto passi da gigante attraverso l'istituzione di un sistema scolastico di formazione della durata complessiva di 15 anni, di cui 3 di scuola materna, 6 di elementari, 3 di scuole medie inferiori e 3 di superiori. Il 98,75% della popolazione in età scolare ha conseguito il livello medio inferiore, mentre il 72,23% il livello medio superiore.

Sul piano infrastrutturale, il Tibet si avvale oggi di moderni sistemi di trasporto, a partire dalla linea ferroviaria del Qinghai-Tibet, inaugurata nel 1984 ed estesa fino a Lhasa nel 2006, nota anche come 'Treno del Cielo' per l'altezza massima raggiunta dai binari, pari a 5.072 metri sul livello del mare, persino su alcuni tratti di ghiaccio perenne. La regione è inoltre servita da cinque aeroporti in cui operano otto compagnie aeree, che collegano quotidianamente il Tibet al resto della Cina.

L'indice di penetrazione telefonica ha raggiunto il 98,1%. I cablaggi del territorio e la connessione alla rete satellitare dei sistemi di telecomunicazione già operativi fa sì che tutte le contee della regione tibetana godano della piena copertura 3G.

 

Il Tibet come barriera ecologica

Come espresso anche durante la recente pubblicazione del rapporto INDC sulla lotta ai cambiamenti climatici e alle emissioni nocive, il governo cinese è pienamente consapevole dei problemi e delle complessità legati all'impressionante crescita economica registrata negli ultimi trentacinque anni. Nel generale piano di sostenibilità pensato da Pechino per gli anni a venire, il Tibet occupa un ruolo importantissimo "non solo in Asia, ma anche su scala globale". Le riserve naturali della regione coprono una superficie totale di 413.700 km2, pari al 33,9% dell'intero territorio tibetano, dove lo Stato preserva 125 specie animali selvatiche e 39 specie di piante. Le praterie naturali ammontano invece a 85,11 milioni di ettari, di cui 69,1 adatti al pascolo.  

Nel corso degli anni, "sia il governo centrale che quello regionale hanno stabilito e migliorato una serie di piani per la conservazione ecologica del Tibet al fine di programmare una generale protezione eco-ambientale". Secondo un piano del 2009, in particolare, il territorio del Tibet dovrà costituire una barriera per la sicurezza ecologica entro il 2030 per un investimento complessivo di 15,8 miliardi di renminbi (circa 2,2 miliardi di euro).

Il governo regionale ha poi approvato il Piano di Miglioramento Eco-Ambientale, il Piano per la Conservazione dell'Acqua e del Suolo, il Piano di Miglioramento Generale dell'Ambiente nelle Fattorie e nelle Aree di Pascolo, e l'Azzonamento Ecologico Funzionale, oltre ad importanti strumenti legislativi quali le modifiche al Regolamento della Regione Autonoma del Tibet per la Protezione Ambientale e la promulgazione dei Metodi della Regione Autonoma del Tibet per la Vigilanza e la Gestione della Protezione Eco-Ambientale.

I singoli progetti specifici sono dedicati in gran parte al controllo del territorio e dei bacini, alla difesa dal dissesto idrogeologico, alla protezione delle foreste naturali, alla riforestazione delle terre coltivate, alla bonifica delle praterie dai pascoli abusivi, alla tutela e al recupero delle valli naturali, degli insediamenti nomadici, delle praterie artificiali e dei pascoli in disuso.

 

Separatismo e interferenze, ancora pericoli reali?

A differenza delle pubblicazioni del passato, il libro bianco dell'aprile scorso ha anche concentrato la sua attenzione, forse per la prima volta in maniera così netta ed esplicita, sugli aspetti più spinosi della questione tibetana. Il terzo capitolo del documento è un vero e proprio capo d'accusa contro la 'via di mezzo' proposta dal Dalai Lama e dalla sua rete politica, secondo la quale il Tibet dovrebbe godere di un "più alto grado di autonomia" lasciando alla competenza del governo cinese soltanto le sfere della diplomazia e della difesa. Il quarto capitolo, invece, menziona direttamente le responsabilità degli Stati Uniti, e della CIA in particolare. "Il gruppo del Dalai Lama ha ricevuto sostegno militare dall'intelligence statunitense (CIA). In base a quanto emerso dagli archivi desecretati di Washington, il Dalai Lama inizialmente stabilì contatti con il governo degli Stati Uniti nel 1951 [...] Durante la rivolta armata in Tibet, la CIA non solo inviò propri agenti per aiutare il 14° Dalai Lama a fuggire, ma addirittura addestrò deliberatamente alcuni militanti per sostenere le sue truppe e aviolanciò massici quantitativi di armi".

La 'via di mezzo' è di fatto l'ultimo espediente del cosiddetto 'governo tibetano in esilio' per edulcorare l'indipendentismo del passato attraverso una mediazione di facciata con il governo della Regione Autonoma del Tibet, di cui lo stesso Dalai Lama disconosce da decenni la legittimità. Accantonati gli atteggiamenti estremistici delle Olimpiadi 2008, la rete Free Tibet, diretta da Eleanor Byrne-Rosengren a Londra, e la Dalai Lama Foundation, guidata da un team di accademici americani a Redwood (California), hanno probabilmente dovuto prendere atto della crescente autorevolezza internazionale di Pechino e soprattutto dello sgonfiamento della questione tibetana presso l'opinione pubblica occidentale, dove addirittura si registra anche qualche inversione di tendenza, come nel caso dell'inchiesta sui rapporti tra il Dalai Lama e la CIA che il quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung ha pubblicato nel giugno 2012.

Secondo il governo cinese, la tesi della 'via di mezzo' anzitutto "nega il fatto che il Tibet sia parte integrante della Cina sin dall'antichità", affermando invece che "il Tibet fu uno Stato indipendente occupato dalla Cina nel 1951". Inoltre, la 'via di mezzo' "cerca di stabilire l'esistenza di un 'Grande Tibet' mai apparso in nessun epoca storica", rivendicando la costituzione di una regione amministrativa unificata che comprenda, oltre all'odierno Tibet, anche le province cinesi del Sichuan, dello Yunnan, del Gansu, del Qinghai e di altre aree dove attualmente risiedono minoranze tibetane. La tesi della 'via di mezzo' recrimina poi un "elevato livello di autonomia" in base al quale l'autogoverno locale non sarebbe soggetto ad alcuna disposizione amministrativa, legislativa ed economica del governo centrale, delegittimando così le autorità nazionali e regionali e l'attuale sistema politico e sociale del Tibet. Pechino infine non crede che, con questa sua proposta, il Dalai Lama sia seriamente intenzionato a lasciare che Pechino mantenga il potere sugli affari militari del Tibet. Allo stesso tempo infatti, egli chiede "che il governo centrale ritiri tutte le sue truppe per fare del Tibet una zona internazionale di pace".

C'è poi un punto che, per ovvi motivi, è meno noto in Occidente. Secondo le proposte del gruppo del Dalai Lama, la fantomatica regione del Grande Tibet sarebbe riservata ai soli tibetani, costringendo ad una vera e propria deportazione gli altri gruppi etnici che risiedono in quelle aree da secoli, una richiesta chiaramente in contrasto con la Costituzione cinese, che riconosce e tutela sia la natura multietnica indigena della nazione sia la libertà di culto per gli Han e per gli altri 55 gruppi etnici della Repubblica Popolare.


  Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 

Continua a leggere