(ASI) Giacomo Leopardi è sempre stato uno dei miei poeti preferiti. Ha scritto capolavori come “Alla luna”, “A Silvia”, “La quiete dopo la tempesta”, solo per citarne alcuni.
A scuola ci hanno sempre insegnato che era un pessimista. Lo abbiamo immaginato come un ragazzo sfigato, triste, chiuso nella sua stanza di Recanati, con lo sguardo fisso verso un mondo che non poteva vivere.
Ce lo hanno fatto studiare come simbolo della malinconia, del dolore, della rinuncia alla vita.
Ma la verità non è questa. Rileggendolo oggi, da adulti, è tutta un’altra storia.
Leopardi era un genio ribelle, ma intrappolato in un corpo fragile e malato, consapevole che la sua vita non sarebbe stata lunga.
Eppure ha studiato in un’epoca in cui la cultura era privilegio di pochi, ha saputo costruirsi un sapere immenso, ha viaggiato, ha sfidato il padre e la mentalità del tempo, ha partecipato ai dibattiti e alle rivoluzioni culturali, inseguendo con coraggio l’unica libertà che poteva permettersi, quella del pensiero.
La sua “noia”, la sua “infelicità”, non erano solo lamenti, ma una forma di lucidità.
Vedeva con chiarezza la fragilità dell’uomo, la disillusione dei sogni, la vanità delle cose.
Eppure, proprio in questo sguardo disincantato c’è un desiderio fortissimo di vita.
Perché chi scrive L’infinito non è uno che ha smesso di sognare: è uno che sogna talmente in grande da riconoscere i confini del proprio cielo.
E come ci sentiremmo noi, allora, ad essere giovani, nel pieno della vita, con progetti e passioni, con un talento riconosciuto da tutti come aveva Leopardi, ma impossibilitati ad agire per via della mancanza di energie?
Non saremmo anche noi pessimisti?
Non perderemmo, forse, un po’ della nostra speranza?
Forse smetteremmo anche noi di credere che la felicità sia un diritto e cominceremmo a vederla come un miraggio. Ce ne staremmo chiusi in casa a commiserarci.
Leopardi non è stato un pessimista, ma un uomo profondamente consapevole.
Il suo dolore era reale, ma la sua mente era viva, in costante dialogo con la vita stessa.
E se fosse vissuto oggi, probabilmente lo chiameremmo lucido, coraggioso, umano.
Perché, alla fine, la sua più grande lezione non è rassegnarsi al limite, ma continuare a guardarlo con la testa alta, come fece quel ragazzo che riuscì a vedere l’infinito.
“Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare.”
(Giacomo Leopardi, “L’infinito”)
Elisa Fossati
*"Immagine generata con l'assistenza di Microsoft Copilot, intelligenza artificiale sviluppata da Microsoft."


