(ASI) Che senso ha parlare di arte mentre la cronaca ci travolge con notizie di distruzione, di conflitti, di vite spezzate? La domanda riaffiora ogni volta che la realtà sembra franare, quando le immagini di dolore diventano troppe, si confondono e smettono di ferire.
È il rischio dell’assuefazione: l’elenco dei morti ridotto a numero, le fotografie consumate in pochi secondi di scroll, le tragedie trasformate in contenuto da rilanciare sui social e monetizzare. La sofferenza diventa spettacolo, svuotata di significato. In questo contesto, parlare di arte può apparire superfluo, persino fuori luogo. Eppure è esattamente il contrario.
Occuparsi di arte non significa chiudere gli occhi davanti alla catastrofe, ma impedirle di annientare anche la memoria. La violenza non colpisce solo i corpi: rade al suolo archivi, biblioteche, musei, chiese, cancella simboli e radici. Distruggere un popolo vuol dire distruggerne anche le immagini, le parole, le tracce che lo raccontano.
Lo abbiamo visto nel Novecento: durante la Seconda guerra mondiale le biblioteche di Varsavia furono incendiate per cancellare un’identità, mentre i nazisti razziavano capolavori dai musei d’Europa. In Italia, città bombardate persero chiese e affreschi, ma qualcuno scelse di resistere proteggendo le opere. Pasquale Rotondi, rischiando la vita, nascose migliaia di tesori d’arte nelle Marche. Altri funzionari trasportavano casse anonime di notte, fingendo traslochi per sottrarre i capolavori al saccheggio. Ogni statua salvata, ogni dipinto sottratto alla distruzione era un atto di resistenza politica e civile.
Resistere non significava soltanto proteggere i capolavori. Nel lager, Primo Levi si ripeteva Dante a memoria: pochi versi bastavano per tenere viva la dignità umana, per non lasciarsi inghiottire dal vuoto. La poesia diventava ancora più necessaria della sopravvivenza materiale.
Oggi come allora, l’arte è chiamata a svolgere lo stesso compito. Nei teatri di guerra contemporanei, mentre le bombe distruggono intere città, i musei cercano di non chiudere, gli artisti continuano a creare, le gallerie inaugurano mostre nonostante le sirene. A Kyiv, raccontano i testimoni, la vita culturale non si è fermata: un gesto che non ha nulla di frivolo, ma che rappresenta una sfida alla distruzione, un modo per tenere unita la comunità.
Ecco perché l’arte non è mai un lusso. È resistenza, è memoria, è la possibilità di dire che la vita non si riduce ai corpi feriti o annientati, ma continua nelle immagini, nei testi, nei segni che un popolo lascia dietro di sé. In mezzo alle macerie, l’arte rimane l’unica voce capace di ricordarci che il nulla non deve vincere.
Salvo Nugnes
"Foto generata da Gemini di Google"


