(ASI) All’Italian Global Series Festival sale sul palco della sala Concordia di Riccione l’ospite più atteso: il due volte premio Oscar Kevin Spacey, con una masterclass per i più giovani. Intervistato dal direttore artistico Marco Spagnoli, l’attore ripercorre le sue origini e l’amore per il teatro, nato a scuola con il fraterno amico Val Kilmer, con cui andò alla Juilliard.
Questa esperienza, insieme a quella di Broadway, gli ha insegnato a stare fermo, al silenzio, al “minimalismo verbale” che ha segnato ogni suo ruolo successivo. Il confrontarsi con i grandi attori, in primis Jack Lemmon, e con i grandi testi, in particolare di Shakespeare, ha facilitato poi il passaggio anche al cinema. Ritiene che la macchina da presa richieda un’onestà diversa: infatti, sul palco si impara “a proiettare, al cinema a rivelare”. Non trova grande differenza nel recitare in queste discipline diverse; la vera differenza sta nel recitare bene o male. Attinge spesso dai testi classici, come appunto quelli di Shakespeare. Il teatro è un’emozione più condivisa, in cui “il respiro del pubblico diventa elettricità con le battute”. Sia nel cinema che nel teatro cerca sempre di dare un’emozione, quella stessa emozione provata nel leggere la sceneggiatura. Rimane felice quando lo identificano con i suoi personaggi, in quanto ciò rappresenta la testimonianza del lavoro fatto bene. Spacey, in un personaggio, cerca “la contraddizione, il conflitto con sé stesso”; infatti, “nessuno è una sola nota”. Si identifica con l’emozione, come in American Beauty, che era un “film sulla ribellione che combatteva contro la vita quotidiana moderna”.
L’esperienza di regista lo ha aiutato ulteriormente nel mestiere dell’attore. In questa ricerca, ha un ruolo di “bussola” la paura, che permette di esplorare meglio quel ruolo.
Nell’ambito della serialità, tema centrale del Festival, riconosce che House of Cards è stata profetica. Il ruolo da Presidente gli ha permesso di comprendere che “il potere è questione di percezione ed esiste finché lo decide la gente”.
Oggi, dopo aver vinto due Oscar, si è trasferito a Londra ed è diventato direttore artistico di un teatro. Ai giovani consiglia di non inseguire la fama, ma la verità, per rendere onore al mestiere. Dal film I soliti sospetti ha raggiunto la fama, che inizialmente sembrava “una porta che ti permetteva di andare in altre porte”. La fama, però, è anche “uno specchio che riflette chi sei e chi pensi tu sia”. “Ciò è pericoloso, e per questo cerca sempre l’autenticità”.
Ammette di avere voglia di raccontare tante altre storie, in particolare quelle di “redenzione”. Si ritiene grato di poter lavorare ancora, soprattutto dopo la lunga vicenda giudiziaria che l’amore della gente, dei fan e di alcuni amici gli ha permesso di sopportare. Perdona tutti quelli che lo avevano preventivamente già colpevolizzato, ma ribadisce la ferma gratitudine verso chi ha creduto in lui e non lo ha mai abbandonato. Per queste persone farà di tutto per non tradire la loro fiducia. Uno di questi è Franco Nero, che gli ha permesso di recitare in L’uomo che disegnò Dio.
Daniele Corvi - Agenzia Stampa Italia


