(ASI) Riceviamo e Pubblichiamo l'editoriale di Lorenzo Valloreja, saggista e analista politico dal titolo "Bombe sulla Chiesa di Gaza: Israele ha passato il limite?".
Questa volta lo Stato d'Israele l'ha fatta fuori dal vaso... non c'è dubbio alcuno.
Con il bombardamento dell'unica chiesa cattolica di Gaza, quella della Sacra Famiglia, situata a nord della "città martire", l'IDF ha violato apertamente le rassicurazioni più volte fornite, secondo cui non avrebbe mai preso di mira siti religiosi durante le operazioni militari.
Si è così infranto un muro di silenzio che sembrava di gomma, tanto che persino un governo amico e compiacente, come quello di Giorgia Meloni, ha dovuto esprimere biasimo nei confronti di Netanyahu per quanto accaduto: tre civili uccisi — due donne e un uomo, identificati come il custode della chiesa (circa 60 anni) e due donne anziane (84 e 69 anni) — e dieci feriti, tra cui il parroco don Gabriel Romanelli, rimasto ferito in modo non grave.
Il sacerdote, ormai noto per essere stato in costante contatto con Papa Francesco durante il suo pontificato, si trovava all'interno della chiesa, che ospitava circa 700 civili inermi, tra famiglie sfollate, bambini disabili accolti nella struttura parrocchiale, e anziani in larga parte impossibilitati a muoversi.
La comunità cristiana nella Striscia di Gaza conta circa 1.000 fedeli su oltre due milioni di abitanti. La maggior parte è ortodossa, ma secondo il Patriarcato circa 135 cattolici vivono nel territorio palestinese, devastato da ventuno mesi di guerra.
A questo punto, viene naturale chiedersi se Israele nutra rancore verso le comunità cristiane.
Su questa linea si è espresso anche il vescovo Pascal Gollnisch, direttore generale dell'Œuvre d'Orient, un'associazione francese che lavora a fianco dei cristiani orientali, affermando di attendersi le scuse ufficiali del governo israeliano.
Giorgia Meloni ha definito "inaccettabile" l'attacco "contro la popolazione civile", avvenuto in una giornata di bombardamenti che — secondo la protezione civile — ha causato 94 morti e 367 feriti solo nella città di Gaza. Anche il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha denunciato l'accaduto come "un atto grave contro un luogo di culto cristiano", esprimendo le sue condoglianze a padre Romanelli.
Da parte sua, Tel Aviv si è affrettata a dichiarare che sta compiendo "ogni sforzo per mitigare i danni causati ai civili e alle strutture civili, compresi i siti religiosi, e si rammarica per qualsiasi danno arrecato loro".
Ma la nuda matematica lascia poco spazio alle frasi di circostanza: almeno 58.573 persone, per lo più civili, sono state uccise — secondo i dati del Ministero della Salute del governo di Hamas, ritenuti attendibili anche dalle Nazioni Unite — dall'inizio delle operazioni militari israeliane seguite al massacro del 7 ottobre 2023. Una ecatombe ingiustificabile, perché la rappresaglia dell'IDF si sta consumando su una scala di 52 palestinesi uccisi per ogni israeliano morto in quell'attacco.
Come se non bastasse, il 16 luglio scorso le forze armate israeliane hanno colpito, con la scusa di "proteggere la causa dei drusi", il Ministero della Difesa a Damasco, causando 3 morti e 34 feriti. Un attacco che non era stato richiesto da nessuno, poiché i leader religiosi drusi — tra cui gli sceicchi Hammoud al-Hinnawi e Youssef Jarbou — avevano già rilasciato una dichiarazione congiunta nella quale esprimevano lealtà alla sovranità di Damasco, affermando: "Non cerchiamo protezione esterna — e certamente non da Israele".
Eppure, Tel Aviv, sventolando la bandiera drusa, ha chiesto a più riprese la smilitarizzazione della Siria sudoccidentale, non per ragioni umanitarie, ma per consolidare il proprio dominio in quell'area.
Lo stesso Netanyahu ha affermato: "Israele non permetterà mai la nascita di un secondo Libano al nostro confine".
Tali parole, unitamente all'attacco su Damasco, rappresentano uno schiaffo alla politica estera americana, che con Trump aveva invece promosso "una soluzione pacifica e inclusiva per i drusi, le tribù beduine, il governo siriano e le forze armate israeliane".
Ora spetta al Tycoon dimostrare se è veramente un uomo libero e fuori dagli schemi, come ha sempre sostenuto dal suo secondo insediamento, oppure ostaggio del sionismo internazionale.
Sta di fatto che il combinato disposto tra il bombardamento della chiesa cattolica e le incursioni in Siria potrebbe aprire le porte non a un improbabile arresto di Netanyahu da parte della comunità internazionale, bensì a un'azione militare dell'ONU.
Un'azione che potrebbe consistere in un sbarco a Gaza, con l'occupazione della Striscia da parte dei caschi blu, chiamati a frapporsi tra IDF e Hamas, forzando un cessate il fuoco. Lo stesso dovrebbe avvenire in Siria, nella regione drusa di Suwayda, raggiungibile dalla "blue line" libanese.
In questo scenario, nuovi contingenti di pace — accanto all'UNIFIL — potrebbero essere istituiti: un UNIFIG per Gaza e un UNIFIS per la Siria, entrambi a guida italiana.
Questa sarebbe la risposta intelligente da parte della comunità internazionale a Netanyahu.
Oggi ne abbiamo la facoltà.
E il ferro si batte — notoriamente — quando è caldo, non quando è freddo.
Lorenzo Valloreja
*Fonte foto: inviata fall'autore del pezzo.


