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Se gli Usa ripensano la loro strategia in medio oriente

(ASI) Nonostante i soliti toni trionfalistici e le dichiarazioni di circostanza la campagna atlantica in medio oriente voluta da Bush e figlio e confermata dal Nobel per la pace Obama si sta rivelando un fallimento tale da trascinare Washington in un pantano come non si vede dai tempi del Vietnam.

 

Aiutati anche dalla famigerata primavera araba che ha in parte ridisegnato lo scenario ora gli Usa, che comunque prima delle presidenziali di novembre hanno le mani legate, vorrebbero ridisegnare alleanze e scenari.

A incidere sulla vicenda anche i tagli alla difesa più volte annunciati da Obama che dal prossimo anno dovrebbero portare ad un riposizionamento di uomini e mezzi sparsi per il mondo che vedrebbe un ridimensionamento dell’importanza geostrategica della regione sostituita in questo dallo scenario asiatico il tutto in nome di un nuovo contenimento della minaccia cinese, senza trascurare la Corea del nord.

Medio oriente però significa petrolio, e quindi gli Usa non abbandoneranno l’area al proprio destino anche perché a quel punto gli atlantici rischierebbero di veder crescere il ruolo e l’importanza del nemico iraniano, con tutte le ripercussioni politiche, economiche ed energetiche che ne conseguono.

Il Golfo Persico, assieme ai Paesi che su di esso affacciano, rappresenta un’area geografica di estrema rilevanza per gli attori internazionali dipendenti dalle risorse energetiche. Il Golfo ospita, infatti, i tre quarti delle riserve mondiali di petrolio e combustibili fossili e il transito dei flussi del commercio internazionale di materie prime energetiche. Da ciò ne consegue che la Casa Bianca non potrà mai abbandonare la regione anche perché in un delirio di onnipotenza vedono ogni cambiamento legato al petrolio come una minaccia ai loro interessi.

L’intento dell’amministrazione Obama, una delle più fallimentari e discutibili nella storia statunitense, prevede nuove relazioni, in primis militari, con le sei nazioni che compongono il Consiglio di Cooperazione del Golfo, ovvero Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar, con lo scopo nemmeno troppo nascosto di costituire una struttura militare integrata aero- navale e di difesa missilistica con i partner regionali le cui scelte militari e diplomatiche non sono poi così lontane da quelle statunitensi. Proprio in questa ottica vanno infatti visti i contratti conclusi nei mesi scorsi per circa 35 miliardi di dollari in Medio Oriente con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

Nello specifico questi prevedono la fornitura di 84 caccia F-15SA per 29,4 miliardi di dollari; oltre al rinnovamento delle batterie di missili Patriot per un valore di 1,7 miliardi, oltre a due batterie antimissile THAAD.

Come detto però è tutto ciò che è legato allo sfruttamento delle risorse energetiche ciò che più sta a cuore agli Usa, nella regione Washington è anche impegnata nell’individuazione di rotte alternative per gli oleodotti che canalizzino il petrolio in uscita dai Paesi del Golfo direttamente verso l’Oceano Indiano e il Mar Rosso, aggirando così lo stretto di Hormuz e riducendone così l’importanza strategica, assestando anche un serio colpo alle ambizioni iraniane.

In questo momento gli Usa nella regione hanno impiegati circa 50 mila soldati; il nuovo corso della loro politica dovrebbe mantenere inalterato questo numero ricollocandoli in linea con la rotazione strategica di truppe per proiettarle più efficacemente nelle aree d’importanza strategica.

Non essendo riuscita a compattare un fronte anti iraniano ora gli Usa sembrano voler rivolgere le loro attenzioni a Cina e Corea del nord; ciò però non significa certo che il Golfo persico sarà abbandonato, in questo momento le priorità statunitensi sono mutate ma rimane ugualmente la politica estera di una potenza bellicosa sempre pronta a combattere contro tutto e tutti per non permettere ad altri di impossessarsi di risorse energetiche.

 

Fabrizio Di Ernesto –Agenzia Stampa Italia

 

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