Babiš torna al potere e spinge Praga verso l’asse sovranista dell’Europa centrale

(ASI) Il trionfo del populista Andrej Babiš alle elezioni legislative del 2 e 3 ottobre segna il ritorno di un volto già noto sulla scena europea — e un segnale politico tutt’altro che marginale per l’Unione. Con il 34,5% dei voti e 80 seggi su 200, il suo partito ANO (Azione dei Cittadini Insoddisfatti) si prepara a tornare al governo, dopo la parentesi del premier uscente Petr Fiala, sconfitto con poco più del 23%.

Babiš, imprenditore miliardario e volto storico del populismo ceco, non ha vinto soltanto un’elezione: ha riaperto una frattura ideologica nel cuore dell’Europa. Dopo Fico in Slovacchia e Orbán in Ungheria, la sua vittoria porta un terzo leader sovranista nel Consiglio europeo, rafforzando il blocco dei “Patrioti per l’Europa”, la nuova famiglia politica nata nel 2024 per contrastare il mainstream europeista.

Per ora, l’ex premier si muove con prudenza. Nelle ore successive al voto ha ribadito la fedeltà alla NATO e all’UE, consapevole che il presidente Petr Pavel, ex generale atlantista, non accetterà un governo che metta in discussione l’appartenenza del Paese alle due organizzazioni.

Ma i numeri parlano chiaro: per raggiungere la maggioranza, Babiš dovrà contare sull’appoggio esterno di due forze ancora più radicali — i Motoristi e la SPD di Tomio Okamura, entrambe euroscettiche e ostili a Bruxelles. Insieme garantirebbero 103 seggi: un margine sufficiente per governare, seppur in equilibrio precario.

Dietro i toni moderati, il programma è tutt’altro che rassicurante per Bruxelles. Babiš ha già annunciato la volontà di bloccare gli aiuti militari a Kyiv e di rivedere gli impegni del Paese sulla transizione verde, unendosi al coro di chi contesta l’impatto economico delle politiche ambientali europee.

Durante la campagna elettorale non ha esitato a evocare l’immagine di un’Europa “troppo occupata a pensare agli ucraini e troppo poco ai propri cittadini”. Un messaggio semplice, ma potente, in un Paese stanco dell’austerità e colpito dall’inflazione.

Nonostante le accuse di frode ai danni dell’UE per i fondi Agrofert — la holding che controlla, tra l’altro, aziende agricole e media — Babiš ha costruito una narrativa efficace: quella del “self-made man” perseguitato dall’élite. Il suo ritorno segna così un’altra vittoria per il populismo pragmatico dell’Europa centro-orientale, quello che si muove tra le istituzioni europee ma le usa per fare opposizione dall’interno.

Il silenzio di Bruxelles è eloquente. Né Ursula von der Leyen né Antonio Costa si sono congratulati pubblicamente. A rompere il ghiaccio, invece, ci ha pensato Viktor Orbán, che ha salutato “una nuova stagione per la famiglia dei patrioti europei”. E da Mosca, il consigliere di Putin Kirill Dmitriev ha esultato: “L’Europa si sta risvegliando”.

Resta da vedere se il presidente Pavel riuscirà a imporre i suoi paletti istituzionali o se, al contrario, sceglierà di nominare Babiš per evitare un lungo stallo politico.

In ogni caso, la direzione è tracciata: la Repubblica Ceca si allinea al fronte del nazionalismo pragmatico che domina ormai il cuore del continente. Un’Europa più divisa, meno solidale con Kyiv e sempre più attenta ai confini che ai valori.

E forse, in controluce, è questo il vero messaggio del voto ceco: non un caso isolato, ma l’ennesimo segnale di una mutazione profonda del progetto europeo, dove i compromessi di un tempo non bastano più a contenere la febbre sovranista.

Tommaso Maiorca – Agenzia Stampa Italia

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