(ASI) A Singapore, tra il 30 maggio e il 1° giugno, il Shangri-La Dialogue ha confermato la sua natura di specchio fedele del mondo che cambia: un luogo dove la diplomazia della sicurezza si intreccia con la geopolitica dell’incertezza.
Quarantasette Paesi, ministri della difesa, capi militari e delegazioni di alto livello hanno discusso di alleanze, deterrenza, infrastrutture critiche e nuove guerre invisibili — quelle dei dati e delle catene del valore.
L’apertura, affidata al presidente francese Emmanuel Macron, ha dato subito il tono: “Europa e Asia devono costruire insieme la propria sicurezza, senza farsi schiacciare tra imperi rivali.” Un invito all’autonomia strategica che suonava come un avvertimento sia a Washington che a Pechino. Macron ha ribadito l’impegno francese nel Pacifico e la necessità di non diventare “vittime collaterali” delle nuove polarizzazioni globali.
La Francia, non a caso, è stata tra i pochi attori europei a proporre un’agenda autonoma. L’Unione Europea, rappresentata da Kaja Kallas, ha insistito sull’idea del diritto internazionale come “miglior deterrente” e sulla necessità di rafforzare la sicurezza marittima e cibernetica, con investimenti comuni fino a 800 miliardi di euro.
La Germania, invece, ha portato l’allarme più crudo: “NATO deve prepararsi a una minaccia russa diretta nei prossimi cinque anni”, ha detto il generale Carsten Breuer.
Sul fronte asiatico, la pluralità delle voci è stata evidente. Singapore ha richiamato al “realismo cooperativo” — sicurezza condivisa senza sacrificare quella altrui — mentre la Malesia ha ribadito la sua linea di non allineamento: “strategic pragmatism, not polarization”, nelle parole del premier Anwar Ibrahim.
Il Giappone ha proposto il quadro OCEAN, un’iniziativa per coordinare le difese del Pacifico in nome della trasparenza e della comunicazione tra pari, mentre l’India ha parlato di “autonomia strategica in un’era dominata dalla tecnologia e dal controllo narrativo”.
Sul palco, il generale Anil Chauhan ha spiegato che “la forza non è solo militare, ma anche informativa e morale”.
La Cina, grande assente con il ministro Dong Jun sostituito da una delegazione di basso profilo, è stata al centro del dibattito pur senza esserci davvero.
Il suo rifiuto di partecipare al forum — il primo in cinque anni — ha avuto l’effetto di un gesto politico calcolato. Come ha notato un diplomatico americano: “Sono irritati e vogliono farlo sapere.”
A occupare la scena è stato invece il nuovo segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Pete Hegseth, fedele alla linea Trump: “L’America è tornata e non andrà da nessuna parte. Siamo qui per dissuadere gli aggressori.” Aggressori che molti paesi vedono esattamente in loro.
Ha difeso la strategia del “peace through strength”, promettendo di rafforzare le basi industriali e i legami con gli alleati del Pacifico.
Per Washington, la priorità resta il contenimento dell’ascesa cinese, anche a costo di spingere i partner regionali — Giappone, Australia, Filippine — ad aumentare le spese militari.
Tra gli osservatori, molti hanno letto la scelta cinese di disertare il vertice come un segnale di recalibration: Pechino privilegia oggi l’arena economica e commerciale, lasciando che il confronto militare si sgonfi nel linguaggio simbolico.
Eppure, la sua assenza ha reso il forum più sbilanciato, quasi un monologo occidentale su un’Asia sempre più divisa.
In mezzo, l’ASEAN cerca di restare l’ancora della stabilità. Singapore, Vietnam e Indonesia spingono per un ordine “inclusivo, basato su regole, non su sfere di influenza”. Ma la realtà delinea una regione dove ogni Paese calibra le proprie mosse tra due poli che si fronteggiano: deterrenza americana e ascesa cinese.
Il Shangri-La Dialogue 2025 ha offerto dunque una fotografia lucida ma inquietante: un’Asia che parla di pace, ma prepara le proprie difese da un America sempre pronta a fare guerra; un’Europa che cerca spazio tra due giganti; e una Cina che sceglie il silenzio.
Tommaso Maiorca – Agenzia Stampa Italia


