(ASI) Il conflitto sudanese, pur essendo tra le peggiori crisi umanitarie e violazioni dei diritti umani al mondo, si consuma in un silenzio internazionale assordante. Mentre le violenze si intensificano e si moltiplicano le accuse di uso di armi chimiche da parte dell’esercito, l’attenzione globale sembra rivolta altrove. Questo disinteresse apre la strada a una deriva allarmante: il Sudan rischia di trasformarsi in un rifugio per le forze estremiste.
La denuncia presentata il 25 settembre dall’Alleanza Sudanese per i Diritti (SAR) suona come un grido d’allarme per risvegliare le coscienze.
La tragedia sudanese va ben oltre il quadro di una semplice guerra civile. Include campagne di pulizia etnica, violenze sessuali sistematiche, sfollamenti di massa e una crisi alimentare di proporzioni senza precedenti. Eppure, questa catastrofe rimane relegata in secondo piano rispetto alle priorità internazionali. Questo silenzio mediatico e diplomatico si spiega con la complessità degli attori coinvolti, l’accesso limitato dei giornalisti sul campo e la tendenza delle grandi potenze a privilegiare altre crisi giudicate strategicamente più urgenti.
Al centro di questo conflitto emerge un’accusa particolarmente grave: l’uso di armi chimiche da parte dell’esercito sudanese. Nel maggio 2025, Washington ha confermato che il regime ne ha fatto uso nel 2024, una rivelazione che avrebbe dovuto scatenare un terremoto diplomatico. Invece, la risposta internazionale si è limitata a poche sanzioni mirate, del tutto insufficienti rispetto alla gravità della situazione.
Di fronte a questa indifferenza, l’Alleanza Sudanese per i Diritti ha intrapreso un’azione legale per rompere il muro del silenzio. La denuncia prende di mira direttamente i principali responsabili militari di Port Sudan, tra cui Abdel Fattah al-Burhan, Yasser al-Atta, Shams Eddine el-Kabbashi e il generale Taher Mohamed. Mette in evidenza l’uso di armi chimiche come crimine centrale, denunciando al contempo le atrocità già documentate. L’iniziativa si articola su tre obiettivi: spingere la Corte Penale Internazionale (CPI) ad aprire nuovi fascicoli, sollecitare l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPAC) a indagare sui siti sospetti e a sospendere l’adesione del Sudan, e obbligare la Commissione Africana per i Diritti Umani a uscire dall’inerzia di fronte alle atrocità commesse.
L’oblio internazionale aggrava un altro pericolo: l’ascesa di milizie islamiste alleate dell’esercito, che fa temere uno scivolamento verso l’estremismo armato nel Corno d’Africa. La Quadripartita (Stati Uniti, Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti) ha già lanciato l’allarme a settembre, sottolineando che «il futuro del Sudan non può essere affidato a gruppi estremisti ristretti, legati direttamente o indirettamente ai Fratelli Musulmani». Questo monito riflette un’ansia regionale: la guerra in Sudan non è solo una tragedia nazionale, ma una minaccia alla sicurezza del bacino del Mar Rosso e dei Paesi vicini.
La denuncia dell’Alleanza Sudanese per i Diritti va oltre il semplice atto giudiziario. Incarna la volontà di ricordare al mondo che i crimini commessi in Sudan non devono essere inghiottiti dall’oblio. Cerca di riportare il Paese al centro dell’attenzione della giustizia internazionale, in un momento in cui le vittime continuano a soffrire lontano dai riflettori. Anche se la comunità internazionale persiste nel voltare lo sguardo altrove, il messaggio è chiaro: i sopravvissuti non dimenticheranno, e i responsabili di questi crimini saranno perseguitati dall’ombra della giustizia.
*Immagine generata con AI Grok


