(ASI) Qualche giorno fa si è chiuso a Stoccolma il terzo round negoziale tra le delegazioni di Cina e Stati Uniti. Non è stato ancora trovato un accordo commerciale ma le parti hanno stabilito un'estensione di altri novanta giorni per le trattative che, a maggio, durante l'incontro di Ginevra, avevano fissato al 12 agosto la scadenza della tregua commerciale.
Sebbene resti tutto incerto, le impressioni positive emerse dal vertice lasciano intuire che stavolta Donald Trump non sarà in grado di imporre condizioni unilateralmente. A questo proposito, Andrea Fais, collaboratore di ASI, è intervenuto sulle “colonne” di China Radio International (CGTN) per la rubrica “In altre parole”. Proponiamo qui di seguito la versione integrale dell’articolo.
Altri novanta giorni di tregua commerciale, a partire dalla scadenza del 12 agosto prossimo, per proseguire le trattative e cercare di individuare un terreno comune che consenta alle parti di firmare un accordo definitivo. È questo l’esito del terzo round negoziale tra Cina e Stati Uniti, conclusosi martedì a Stoccolma, dopo gli incontri di Ginevra, a maggio, e Londra, a giugno.
“Un rapporto economico e commerciale stabile, sano e sostenibile tra Cina e Stati Uniti non solo serve ai rispettivi obiettivi di sviluppo dei due Paesi, ma contribuisce anche alla crescita e alla stabilità economica globale”, ha affermato il vicepremier He Lifeng, capo negoziatore cinese. Da parte sua, il segretario al Tesoro Scott Bessent, che guida la delegazione statunitense, ha parlato di “due giorni molto intensi”, durante i quali si è discusso “di cosa potremmo fare insieme per raggiungere un equilibrio all’interno del rapporto”, evidenziando l’esigenza di Washington di “ridurre i rischi in alcuni settori strategici, siano essi terre rare, semiconduttori o medicinali”.
Stando a quanto riferito da He Yadong, portavoce del Ministero del Commercio della Repubblica Popolare, le due parti hanno tenuto “scambi sinceri, approfonditi e costruttivi sulle relazioni economiche e commerciali sino-statunitensi, sulle politiche macroeconomiche ed altri temi di interesse reciproco”. Entrambe le delegazioni – ha proseguito He – hanno inoltre esaminato e riconosciuto il consenso raggiunto a Ginevra e l’attuazione del quadro stabilito a Londra.
Se, da un lato, la due-giorni in terra svedese non ha prodotto alcun accordo, dall’altro il vertice conferma l’estrema cautela diplomatica degli Stati Uniti in un momento di forti tensioni con il resto del mondo. In questi stessi giorni, infatti, Donald Trump ha: dapprima piegato Bruxelles con l’accordo concluso domenica scorsa in Scozia, che prevede tariffe al 15% sulle esportazioni europee negli Stati Uniti ed una serie di significativi obblighi per l’UE; poi liquidato Nuova Delhi con l’applicazione di dazi al 25%, appena un punto percentuale in meno rispetto al 26% annunciato inizialmente; al contempo colpito pesantemente Brasilia con una tariffa del 50% per diverse categorie di merci, sullo sfondo di un duro scontro politico con l’omologo Lula in merito alla vicenda giudiziaria che coinvolge l’ex presidente Bolsonaro; ed infine, poco prima della mezzanotte del 31 luglio, aumentato i dazi sui prodotti canadesi dal 25% al 35%.
Insomma, mentre la Casa Bianca ha mostrato ben poca pietà dinnanzi agli alleati europei e a quello canadese, al partner indiano e a quello brasiliano, con Pechino la storia è molto diversa. Da mesi Trump non nasconde l’impazienza di voler incontrare personalmente Xi Jinping per firmare un accordo definitivo. Malgrado la retorica e gli slogan da campagna elettorale, nell’entourage del presidente statunitense è palese la consapevolezza che in questo caso non è possibile imporre condizioni in modo unilaterale o comunque forzare le trattative per sbilanciarne l’esito a proprio vantaggio.
Oltre ad aver scatenato una generale incertezza globale, mandando in subbuglio le borse mondiali, l’annuncio dei dazi generalizzati dello scorso aprile aveva provocato la dura reazione del gigante asiatico, l’unico attore internazionale ad aver immediatamente respinto le minacce degli Stati Uniti e risposto con l’applicazione di contro-dazi della stessa misura. “Siamo pronti a combattere fino alla fine”, aveva fatto sapere senza mezzi termini il Ministero del Commercio cinese in quei giorni giustificando le contromisure adottate con la necessità di salvaguardare la sovranità, la sicurezza e gli interessi di sviluppo del Paese.
Forte di un interscambio complessivo pari a 43.850 miliardi di yuan nel 2024, in aumento del 5% rispetto all’anno precedente, la Cina è saldamente la prima potenza commerciale al mondo: a crescere è stato più l’export (+7,1%) che l’import (+2,3%), a dimostrazione che il Dragone resta un hub manifatturiero insostituibile. Ciononostante, nel corso degli ultimi dieci anni, l’accesso al mercato cinese per beni e servizi stranieri è significativamente aumentato, sostenuto anche da grandi eventi B2B e B2C quali la CIIE di Shanghai, la CICPE di Haikou o la CISCE di Pechino. Presentato lo scorso novembre dall’Istituto per la Politica e l’Economia Mondiale dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali e dal Centro di Ricerca del Forum Economico Internazionale di Hongqiao, l’ultimo World Openness Report mostra che l’indice di apertura economica della Cina continentale è salito dallo 0,6789 del 2008 allo 0,7596 del 2023, piazzando il Dragone al 38° posto tra le 129 economie prese in esame. “L’apertura è un chiaro segno distintivo della modernizzazione cinese”, aveva affermato in quell’occasione Qu Weixi, direttore dello stesso Centro di Ricerca, spiegando come nel promuovere le riforme e lo sviluppo attraverso l’apertura, la Cina cerchi di favorire risultati vantaggiosi per tutti, a livello sia nazionale che globale.
Rispetto all’atteggiamento arrogante, per certi aspetti persino umiliante, degli Stati Uniti, che hanno fatto leva senza remore sulla condizione di subalternità dei loro alleati, la Cina emerge come un riferimento per tutti quei Paesi in via di sviluppo che da oltre trent’anni subiscono, loro malgrado, le iniquità, gli eccessi e le contraddizioni del Washington Consensus. Senza disconoscere i frutti positivi della globalizzazione e dell’apertura dei mercati, e quindi indirettamente anche il contributo dei capitali e delle tecnologie statunitensi alla crescita mondiale, sul piano politico la superpotenza a stelle e strisce ha tuttavia inaugurato una lunga fase di guerre e intromissioni negli affari interni di molte nazioni, nel tentativo di imporre il proprio modello – e il proprio controllo – nel resto del pianeta. Oggi, la Cina parla un linguaggio diverso, non egemonico ed orientato alla coesistenza pacifica tra i diversi popoli e i loro rispettivi interessi. Le numerose organizzazioni multilaterali che la vedono protagonista, a partire ovviamente dall’ONU, testimoniano l’impegno a riformare in senso più equo ed inclusivo le regole della governance globale su numerosi fronti, dal commercio alla sicurezza, dallo sviluppo alla cooperazione.
Ciò non significa che, come spesso alcuni insinuano, Pechino sia destinata a rappresentare un nuovo modello dominante. Proprio perché fortemente ancorato alle caratteristiche nazionali e culturali del Paese, quello cinese non è un sistema politico replicabile altrove né tanto meno esportabile. Il colosso asiatico non va nemmeno considerato, banalmente, un alter ego del colosso nordamericano, come fu per decenni l’Unione Sovietica nella seconda metà del secolo scorso, cadendo nella trappola della corsa agli armamenti e all’egemonia globale. La Cina è, semmai, l’esempio di come la capacità di adattamento, la pianificazione di lungo termine e la piena consapevolezza dei propri interessi strategici ripaghino sempre, prima o dopo, restituendo risultati tangibili. L’Europa, ancora stordita e delusa per le condizioni che è stata costretta ad accettare domenica scorsa, potrebbe imparare proprio questo. Capire gli errori commessi, ripensare sé stessa su nuove basi e rimboccarsi le maniche, da subito e senza perdere altro tempo, per non finire nel dimenticatoio della storia.
Andrea Fais - CRI (CGTN)


