Cina. Soluzione condivisa potrebbe nascere sul campo, conflitto ricompatta la SCO

139084622 15903427189261n(ASI) Ancora impegnata nella complessa tela diplomatica internazionale per la risoluzione della crisi in Ucraina, improvvisamente riesplosa lo scorso 24 febbraio dopo l'avvio da parte del Cremlino della cosiddetta «operazione militare speciale» nell'ex repubblica sovietica confinante, la Cina sembra trovarsi in una posizione tutt'altro che ambigua, al contrario di quanto va ripetendo da settimane gran parte della stampa generalista occidentale.

Ribadita la partnership strategica con Mosca, con cui celebrerà nel prossimo luglio il ventunesimo anniversario della firma del Trattato di Buon Vicinato e Cooperazione Amichevole, esteso per altri cinque anni (sino al 2026) nel giugno 2021, Pechino ha mantenuto dritta la barra in politica estera, proponendo a tutti i suoi interlocutori internazionali una soluzione piuttosto realistica.

Sin dai primi giorni dell'escalation militare in Ucraina, la Cina ha espresso la condanna di qualsiasi aggressione ai danni di un Paese sovrano. Da questo punto di vista, il colosso asiatico non può prescindere dal principio del rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale, uno dei capisaldi della politica di coesistenza pacifica adottata sin dalla fondazione della Repubblica Popolare (1949) e rilanciata come idea-guida durante la Conferenza di Bandung (1955) agli altri leader dei Paesi non-allineati dell'Asia e dell'Africa, proprio in contrapposizione al bipolarismo USA-URSS della Guerra Fredda.

Si tratta di una linea rossa che Pechino ritiene invalicabile già soltanto per ragioni interne legate alle questioni di Taiwan, Hong Kong, Tibet e Xinjiang, dove le pulsioni separatiste e le interferenze esterne di governi e ONG occidentali vengono costantemente respinte con forza e definite quali tentativi di frammentare l'unità nazionale del Paese.

 

Il realismo cinese

Allo stesso tempo, Pechino non ha potuto fare a meno di notare la specificità storica del caso ucraino. Senza meglio dettagliare questa complessità, è presumibile che i cinesi si riferissero alla particolare conformazione dell'Ucraina odierna, repubblica indipendente sorta appena trent'anni fa sulla base dei confini arbitrariamente stabiliti dalla leadership sovietica nell'ex Impero Russo per garantire relativa autonomia alle regioni che lo componevano.

La mancata ridiscussione degli spazi interni all'URSS all'atto della sua dissoluzione è stata ed è tutt'ora alla base di numerose crisi. Di certo questa, per dimensioni ed impegno militare, è la più grande mai vista sin'ora, ma conflitti significativi hanno riguardato nel passato più di un caso: la guerra azero-armena per la regione del Nagorno-Karabakh (1988-2020), risolta circa un anno e mezzo fa con la vittoria militare di Baku e la successiva mediazione russa; la guerra russo-moldava in Transnistria (1990-1992), dove tutt'ora sono di stanza truppe del Cremlino che oggi potrebbero essere utilizzate proprio in Ucraina; la guerra civile in Tagikistan per il destino della regione del Gorno-Badachšan (1992-1997); la guerra separatista nella regione georgiana dell'Abkhazia (1993); le guerre russo-cecene (1994 e 1999); la guerra russo-georgiana del 2008 per l'Ossezia del Sud ed altre ancora.

Secondo l'interpretazione del Ministero degli Esteri di Pechino, la richiesta di adesione alla NATO da parte di Kiev avrebbe inoltre violato la linea rossa del principio di indivisibilità della sicurezza più volte sancito in vari accordi firmati dalle parti tra il 1975 e il 1997, in base al quale nessun attore può avvantaggiarsi in termini di sicurezza a scapito dell'altro.

Insomma, la ricostruzione dei fatti da parte del governo cinese appare molto più completa rispetto alla semplificazione in atto nei Paesi NATO. La lettura di Wang Yi e dei suoi portavoce spiega dunque perfettamente l'astensione del gigante asiatico in sede ONU durante il voto di condanna dell'intervento russo - posizione per altro condivisa da attori del calibro di India, Pakistan e Sudafrica - e il rifiuto di aderire al programma di sanzioni varato da Stati Uniti e Unione Europea.  

Cosa chiede allora Pechino? Da un lato l'impegno comune delle parti per un cessate il fuoco immediato, dall'altro la garanzia che la NATO prenda seriamente in considerazione le preoccupazioni della Russia in termini di sicurezza collettiva. La Cina sta infatti fornendo assistenza e aiuti umanitari all'Ucraina tramite la Croce Rossa Internazionale, come ripetuto tre giorni fa al Consiglio di Sicurezza dal rappresentante all'ONU Zhang Jun, conferendo nel breve termine la massima priorità alla grave crisi umanitaria in corso. Nel lungo termine, tuttavia, Zhang ha precisato che «la soluzione risiede nell'abbandono della mentalità da Guerra Fredda, nella rinuncia del confronto tra blocchi e nella graduale applicazione di un'architettura di sicurezza globale e regionale equilibrata, efficace e sostenibile».

 

Una linea di faglia storica

Se si guarda bene alle forze in campo, quello cinese appare davvero l'unico punto di vista costruttivo ed imparziale nel conflitto in corso. L'Alleanza Atlantica, fornendo armi ed equipaggiamenti all'esercito ucraino è de-facto cobelligerante. L'Unione Europea, i cui Paesi membri sono in gran parte membri NATO, ha approvato pesanti sanzioni unilaterali nei confronti di Mosca, schierandosi apertamente dalla parte del presidente ucraino Volodymir Zelensky. Malgrado gli apprezzabili appelli alla pace e le frasi di condanna verso qualsiasi violenza, lo stesso Stato Vaticano, come attore politico, è chiaramente vicino alla Chiesa greco-cattolica (uniate) ucraina, attiva nelle regioni occidentali del Paese.

L'Ucraina viene infatti spaccata in due da una linea di faglia storico-culturale tra la civiltà occidentale e la civiltà ortodossa che il celebre politologo Samuel P. Huntington aveva già indicato nel suo Lo scontro delle civiltà del 1996, spiegando come quello oggi dilaniato dal confronto armato fosse «un Paese diviso, patria di due distinte culture» [S.P. Huntington, Garazanti, 1997, pp. 239-241]. Ventisei anni dopo, e con il riconoscimento nel 2018 di una Chiesa ortodossa autocefala ucraina da parte di Costantipoli in contrasto col Patriarcato di Mosca, l'ipotesi, allora ritenuta remota, di uno scontro violento tra russi e ucraini è divenuta tristemente realtà.

La guerra in corso potrebbe dunque velocemente concretizzare la seconda possibilità, ritenuta comunque realistica, che Huntington preconizzava già allora per l'Ucraina, anche guardando alla distribuzione geografica del voto nelle elezioni del 1994 tra i due candidati Leonid Kucma e Leonid Kravciuk, ovvero che il Paese «si spacchi in due distinte entità e che la parte orientale venga annessa alla Russia».

Se i negoziati riprendessero vita e si arrivasse ad un tavolo a due, o addirittura a tre con la Polonia, come qualcuno ipotizza in questi giorni, si aprirebbe la possibilità di una ridefinizione territoriale condivisa. Paradossalmente, in questo caso, il negoziato passerebbe attraverso il conflitto. Ogni giorno che passa, infatti, i soldati russi avanzano di qualche chilometro e, qualora nelle prossime settimane riuscissero a sfondare le linee ucraine, ammassate in gran numero a ridosso del territorio di Donet'sk e Lugan'sk, avrebbero probabilmente strada facile sino a Kropyvnyc'kyj, nell'Oblast' di Kirovohrad, isolando così Odessa, che sarebbe costretta a dichiarare la resa.

A quel punto, l'intera porzione sud-orientale dell'Ucraina odierna sarebbe completamente in mano russa e la spietata ma sempreverde "politica del fatto compiuto" metterebbe le parti in condizioni di negoziare i nuovi assetti territoriali del Paese, chiaramente con Kiev nella veste dell'attore debole e Varsavia in quella dell'attore interessato.

 

La SCO si ricompatta

A quasi due anni dallo scoppio di schermaglie al confine lungo la valle del Fiume Galwan, tra le aree contese dell'Aksai Chin e del Ladakh, Cina ed India sono tornate a parlarsi proprio in questi giorni. Come da noi anticipato undici giorni fa, la polarizzazione globale cercata dalla NATO nel conflitto in Ucraina potrebbe produrre effetti a catena non solo in Europa e nello spazio post-sovietico ma anche in tutto il resto del mondo. L'occasione è stata un incontro a Nuova Delhi tra il ministro Wang Yi e il consigliere per la Sicurezza Nazionale indano Ajit Doval, durante cui il capo della diplomazia cinese, citato da CGTN, ha sottolineato che «la cooperazione amichevole» dovrebbe essere il «canale principale» delle relazioni bilaterali, ricordando gli oltre mille anni di scambi di civiltà nella storia dei due Paesi.

Le tensioni, non solo militari, degli ultimi due anni avevano portato il primo ministro indiano Narendra Modi a sospendere l'adesione del suo Paese al Partenariato Economico Globale Regionale (RCEP), il mega-accordo commerciale che lo scorso anno ha ufficialmente istituito un'area di libero scambio tra i dieci Paesi ASEAN, Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. Ora, però, il clima potrebbe rasserenarsi. Non a caso, Wang ha ribadito la necessità di aderire alla «visione strategica dei due leader» [Xi e Modi, nda], secondo cui Cina ed India non dovrebbe rappresentare una minaccia l'uno per l'altro, ma «un'opportunità di sviluppo reciproca», secondo la mentalità del mutuo beneficio (win-win).

Fruttuoso anche l'incontro con l'omologo indiano Subrahmanyam Jaishankar, col quale Wang ha discusso, tra le altre cose, di Ucraina e Afghanistan. «Mentre il mondo sta entrando in una nuova fase di turbolenze e cambiamenti, le due parti dovrebbero rafforzare la comunicazione e coordinare le loro posizioni, salvaguardare i loro legittimi interessi e gli interessi comuni dei Paesi in via di sviluppo, nonché contribuire a promuovere la pace e la stabilità nel mondo», ha detto il ministro degli Esteri cinese durante il vertice. Jaishankar ha affermato che Nuova Delhi conferisce «grande importanza alle sue relazioni con la Cina ed è intenzionata a rafforzare la comunicazione e la reciproca fiducia strategica» con il vicino settentrionale.

Dopo dodici anni di presenza in qualità di membro osservatore, nel 2017 l'India, tradizionale alleata di Mosca, è entrata a pieno titolo nell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), creata nel 2001 proprio da Cina e Russia, insieme a Kazakhstan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan, per mantenere la sicurezza e la stabilità nella complessa regione ex-sovietica dell'Asia Centrale. La contemporanea adesione del Pakistan, tradizionale alleato di Pechino, rappresenta uno dei maggiori successi diplomatici sin qui raggiunti dall'organizzazione, che da anni annovera, in qualità di osservatori, anche Iran, Afghanistan, Bielorussia e Mongolia. Turchia, Azerbaigian, Armenia, Cambogia, Nepal e Sri Lanka compongono invece il quadro dei partner per il dialogo, cui dovrebbe aggiungersi a breve anche l'Arabia Saudita.

Premettendo che la SCO non è - e probabilmente non sarà mai - una risposta asiatica alla NATO, non fosse altro che per dinamiche, relazioni e rapporti di forza interni completamente diversi rispetto al verticismo "anglo-centrico" dell'Alleanza Atlantica, è evidente che la crisi ucraina potrebbe finire paradossalmente per isolare l'Occidente da buona parte del resto del mondo.

 

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 

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