(ASI) Con una serie di notifiche diffuse il 9 ottobre, il Ministero cinese del Commercio (MOFCOM) ha annunciato un nuovo pacchetto di controlli unilaterali sulle esportazioni di terre rare, batterie al litio, materiali superduri e tecnologie correlate.
Misure che, oltre a ridefinire le regole per l’industria cinese, estendono per la prima volta la giurisdizione di Pechino al di fuori dei propri confini, includendo prodotti fabbricati all’estero con tecnologie o materiali di origine cinese.
Si tratta di un salto qualitativo nel modo in cui la Cina esercita la propria influenza sulle filiere globali, una mossa che arriva a poche settimane dal previsto incontro tra Donald Trump e Xi Jinping, e che gli analisti leggono come una risposta diretta alle ultime restrizioni statunitensi in materia di semiconduttori e tecnologie sensibili.
Le nuove misure, contenute in sei diversi annunci, prevedono che parte dei controlli entri immediatamente in vigore, mentre altri diventeranno effettivi dall’8 novembre e, in modo ancora più incisivo, dal 1° dicembre 2025, quando scatteranno le disposizioni extraterritoriali.
Secondo il MOFCOM, la ratio è quella di “tutelare la sicurezza nazionale e prevenire la diversione di materiali e tecnologie sensibili”, ma l’ampiezza delle restrizioni lascia poco spazio ai dubbi: Pechino intende rispondere colpo su colpo alle mosse di Washington, utilizzando la leva strategica delle terre rare per riequilibrare un confronto commerciale ormai apertamente politico.
Sul piano tecnico, le nuove regole impongono l’obbligo di licenza per un ventaglio di prodotti che va dalle terre rare di media e alta densità ai materiali magnetici permanenti, fino ai componenti elettronici e alle batterie al litio.
Il meccanismo prevede un controllo “a cascata”: ogni prodotto fabbricato all’estero che contenga anche solo lo 0,1% di valore in materiali di origine cinese o che sia stato realizzato con tecnologie cinesi rientra automaticamente nel campo d’applicazione dei nuovi vincoli. È, in sostanza, una versione cinese della “foreign direct product rule” statunitense, ma con una soglia molto più bassa e quindi potenzialmente devastante per la prevedibilità delle catene di approvvigionamento.
La novità più significativa è proprio l’introduzione di una giurisdizione extraterritoriale che obbliga anche le aziende straniere a richiedere autorizzazioni a Pechino per riesportare prodotti contenenti terre rare cinesi da un Paese terzo a un altro. È la prima volta che la Cina applica un simile principio nel campo del commercio dual use. In parallelo, viene formalizzato il cosiddetto “50% rule”, una clausola che estende automaticamente il divieto di esportazione a qualsiasi filiale o società controllata per oltre la metà da soggetti inseriti nella lista nera o nella watch list cinese. In pratica, un riflesso speculare della recente “Affiliates Rule” americana.
Non mancano, come prevedibile, implicazioni industriali immediate. Il settore più esposto è quello elettronico, seguito da semiconduttori, aerospazio, automotive e difesa. Le aziende globali dovranno rivedere le proprie procedure di tracciabilità, le catene di fornitura e i sistemi di screening sui partner, poiché ogni minima componente con contenuto cinese potrebbe richiedere un’autorizzazione preventiva.
Anche il sistema di licenze sarà sottoposto a una revisione più stringente, con particolare attenzione alle applicazioni legate a chip sotto i 14 nanometri o a progetti di intelligenza artificiale con potenziali utilizzi militari.
Dal punto di vista politico, la reazione statunitense non si è fatta attendere. Poche ore dopo l’annuncio, Donald Trump ha minacciato l’introduzione di nuovi dazi del 100% sulle importazioni cinesi, ventilando perfino la possibilità di cancellare l’incontro bilaterale previsto entro fine mese. A Washington, i membri del Congresso hanno letto la mossa cinese come una provocazione e come un test della capacità americana di reggere un confronto tecnologico su più fronti.
Per Pechino, però, la partita va oltre la tattica negoziale. Le terre rare, un gruppo di 17 elementi fondamentali per l’industria high-tech — dai motori elettrici ai radar militari, fino ai chip — rappresentano da anni uno degli strumenti di pressione più efficaci nelle relazioni internazionali. Con questa mossa, la Cina consolida la propria posizione come arbitro delle forniture globali, proprio nel momento in cui Stati Uniti ed Europa stanno cercando di diversificare le proprie fonti con miniere e impianti di raffinazione alternativi.
È un braccio di ferro che riflette la logica della “biforcazione strutturale” evocata dagli analisti: da un lato la Cina che internalizza e controlla la propria catena del valore, dall’altro l’Occidente che accelera per ridurre la dipendenza da Pechino.
Nel mezzo, centinaia di imprese che operano globalmente e si ritrovano improvvisamente sospese tra due sistemi di regole, due burocrazie e due visioni inconciliabili di sicurezza economica.
In fondo, la Cina non ha alcuna intenzione di rinunciare alla leva che le garantisce più potere di qualsiasi dazio: il controllo sulle materie prime che muovono il mondo digitale.
Tommaso Maiorca – Agenzia Stampa Italia


