Uno sguardo sul mondo. Intervista a Stefania Craxi

(ASI) È da poco uscito nelle librerie per i tipi di Mondadori Editore Uno sguardo sul mondo. Appunti e scritti di politica estera, terzo volume a cura della Fondazione Craxi, dedicato all'azione e al pensiero di Bettino Craxi in ambito internazionale. L'opera contiene documenti, in parte inediti, che ci consegnano una mole di idee, suggerimenti e intuizioni di sconvolgente attualità. Abbiamo raggiunto la Sen. Stefania Craxi, figlia del compianto leader socialista, per saperne di più.

 

Sen. Craxi, benvenuta su Agenzia Stampa Italia. Uno sguardo sul mondo. Appunti e scritti di politica estera fornisce tanti spunti di riflessione sul ruolo che Suo padre pensava per l'Italia nel contesto internazionale. Quale contributo avrebbe potuto dare Craxi alla politica dei giorni d'oggi?

Non serve esercitarsi in una particolare attività interpretativa per capire quale tipo di contributo Craxi avrebbe offerto alla politica del nostro tempo. È sufficiente leggersi con attenzione proprio le pagine del volume da Lei menzionato che, sebbene sia stato costruito con il rigore storico-scientifico necessario trattandosi di appunti, scritti e documenti storici, ha il pregio tutto ‘craxiano’ di anticipare con impressionante lucidità le tematiche più spinose del nostro tempo. Quella di Craxi è quindi una voce che echeggia dal futuro, che affronta con un quarto di secolo di anticipo temi quali, ad esempio, la globalizzazione, la questione migratoria ed i destini della costruzione europea per cui tanto si era battuto sia nelle vesti istituzionali che in quelle di leader politico. Vede con largo anticipo le storture, le mancanze e le contraddizioni che si stavano innescando su questi processi storici complessi e lancia, inascoltato, un monito al suo tempo affinché non tardasse nell’affrontare i nodi insoluti. È una voce inascoltata che lo condannerà ad essere una moderna Cassandra. In quelle pagine troviamo rotte e principi per un’Italia ed una Europa protagoniste della scena internazionale.

 

Bettino Craxi non ha mai nascosto il suo scetticismo rispetto al Trattato di Maastricht che, a suo giudizio, imponeva condizioni poco vantaggiose all’Italia. Secondo Lei, le classi dirigenti che hanno partecipato alla costruzione europea negli anni Novanta hanno davvero ignorato l'avvertimento di Suo padre?

Non sono certo io ad affermare che quella voce è stata ignorata. Sono i fatti, le realtà del nostro tempo, le condizioni in cui versa l’Italia e la stessa Europa, nonché le contraddizioni globali e le crisi mediterranee e mediorientali a rispondere tangibilmente a questa sua domanda. Il tema, semmai, è capire perché l’hanno ignorata, se ci fu dolo o insipienza, se ci fu debolezza, subalternità oppure un’accondiscendenza interessata, magari preparata per tempo sostituendo un personale politico scomodo con uno più incline all’obbedienza, diciamo così... È comunque negli anni dell’esilio tunisino [1994-2000, ndr], da Hammamet, che Craxi lancia inascoltato molti dei suoi appelli, su tutti quello relativo ai difetti della costruzione europea. Denunciò l’assenza di un progetto di integrazione politica – pensi cosa direbbe oggi innanzi alla condizione kafkiana che vivono le Istituzioni comunitarie – e gli squilibri sociali ed economici che la costruzione economico-monetaria rischiava di produrre in assenza di una revisione profonda dei trattati costitutivi. Gli stessi che, per inciso, sono stati con il tempo anche traditi nello spirito originario che li animava. Ma pur innanzi a questa situazione non avrebbe certo operato per distruggere l’Europa che è innanzitutto, prima che moneta ed istituzioni, una comunità di destini, una storia di popoli e culture che può ritrovare il suo cammino, il suo domani, attraverso una nuova progettualità politica, superando la logica delle ‘gerarchie di potenza’ che l’ha ridotta in uno stato comatoso.

 

Nei primi anni Novanta, Craxi lanciò un monito a proposito della necessità di agire sulle economie e sulle società del Nord Africa, già in forte espansione demografica rispetto ad un'Europa ricca ma in flessione di nuove nascite, prevedendo con largo anticipo quel grande fenomeno migratorio di massa che oggi crea grandi problemi e innesca aspre polemiche tra forze politiche. Tuttavia, è ormai giudizio unanime che, senza stabilità politica e sviluppo economico, questi Paesi, così come anche quelli dell'Africa sub-sahariana, non avranno prospettive di lungo periodo. Secondo Lei, la politica europea ha davvero compreso fino in fondo la lezione di Craxi sulle risposte ai problemi del Terzo Mondo?

Mi pare di no, anche se non è mai troppo tardi per intraprendere una strada perché, oggi, è l’unica percorribile. Non ne vedo altre. I flussi migratori, ma non solo, ci pongono innanzi ad un problema epocale che non si risolve con strilla, urli, proclami né tantomeno con l’accoglienza indiscriminata, i buoni propositi, il terzomondismo radical-chic o, peggio, con l’indifferenza. Craxi capì con anticipo che se l’Occidente non avesse affrontato la questione dell’enorme divario tra il Nord ed il Sud del Mondo, che egli definiva ‘la questione sociale del nostro tempo’, molti sarebbero stati gli effetti che avrebbero investito con dirompenza le nostre realtà. Non è solo il tema dei flussi, è anche e soprattutto il tema della stabilità di quelle realtà in cui non esiste la democrazia, lo Stato, né tantomeno lo Stato di diritto. È il tema della radicalizzazione e del fanatismo e del terrorismo di matrice religiosa che ha radici anche e soprattutto nella miseria, nella disperazione. Dove c’è fame, dove non c’è acqua, non ci può essere pace, non può esistere sviluppo. Con tutta evidenza sono temi che dovrebbero rifuggire dalla spicciola polemica politica e che non possono che essere affrontati in una dimensione sovranazionale.

 

In uno degli appunti pubblicati nel libro, datato 1998, Craxi notava come la Cina avesse intuito il corso multipolare degli equilibri mondiali successivi alla fine della Guerra Fredda, giudicando la visione di Pechino "più convincente" rispetto a quella di una "globalizzazione a senso unico". Vent'anni dopo, Pechino lancia una sua strategia internazionale, trainata dall'iniziativa Belt and Road, mettendosi alla testa di una serie di economie in via di sviluppo. Anche in questo caso, secondo Lei, l'intuizione di Craxi è stata colta con estremo ritardo dalla politica italiana?

Ripeto, sono i fatti a dare una risposta. I cinesi hanno dato un'interpretazione alla globalizzazione economico-finanzia molto singolare e particolareggiata, un modello unico che però ha dimenticato molte delle premesse originarie. Chi pensava che il mercato avrebbe schiuso le porte a democrazia e diritti, ad uno sviluppo equo e solidale, non può che confessare il suo errore. Craxi vede nella Cina, nella sua volontà di conquista e di protagonismo internazionale un attore vitale con cui fare i conti. Ma al contempo, vede i limiti di questa visione catartica della globalizzazione ed i rischi che l’assenza di una governance globale dei processi - che spettava alla politica ed ai governi e non certo ai mercati e alla turbo-finanza - comportava. Oggi abbiamo potenze mondiali che agiscono negli scenari economico-internazionali con una logica autoritaria inquietante su cui bisognerebbe soffermarsi a ragionare. Non riguarda solo la Cina, sia ben inteso. Pensiamo alla pervasività con cui operano alcuni fondi sovrani di certi Paesi.

 

Negli anni Ottanta, l'economia occidentale viveva la grande trasformazione neoliberista guidata da Ronald Reagan e Margaret Thatcher, due leader che Suo padre ha conosciuto da vicino. Oggi, dopo la Brexit e la vittoria di Trump, Washington e Londra sembrano diventati gli avamposti di un nuovo isolazionismo, certamente relativo e mitigato da un ruolo internazionale ancora forte, ma estremamente critico verso la globalizzazione e le sue dinamiche. Lei come inquadra questa complessa fase internazionale? Che direbbe Bettino Craxi?

Non so cosa direbbe mio padre, ma di certo, in coerenza con tutto il suo agire, favorirebbe un processo in cui l’Europa cogliesse le opportunità derivate da queste scelte che, semplicisticamente, possiamo definire di ‘chiusura’, trasformando una realtà confusa e priva di un ruolo politico strategico in una realtà protagonista della scena internazionale. O l’Europa fa questo salto in termini di visione e di progettualità o non ha futuro, poiché innanzi alla sua crisi, una crisi strutturale, non possiamo immaginare di rispondere solo con l’irreversibilità dei processi di integrazione, soprattutto economico-monetari, già compiuti. Su questo piano non si può che ottenere l’effetto opposto, ossia mettere in discussione l’esistenza della stessa UE con tutto ciò che ne deriva. Le scelte dei soggetti esterni all'UE, e mi riferisco soprattutto alle determinazioni dell’America trumpiana, non vanno lette con le lenti deformanti degli interessi nostrani. C’è un momento nelle relazioni in cui gli interessi tra alleati storici possono anche non coincidere. Non bisogna farne un dramma, condannare chi fa il suo interesse e quello dei suoi cittadini, ma bisogna piuttosto capire quali sia il ‘nostro’ in quanto Europa e Stati europei. Il Mediterraneo, ad esempio, già prima di Trump non era una priorità strategica dell’agenda americana. Quanto alla Brexit è un processo ancora in itinere visto che non conosciamo, noi come gli stessi cittadini britannici, i termini dell’accordo, se accordo sarà. Non è un dettaglio. Il referendum è stato una chiamata su parole d’ordine, su paure e reazioni che hanno visto contrapporsi tutto ed il suo contrario. È una storia da scrivere. Speriamo di poter leggere un lieto fine. Quanto alle dinamiche in atto non c’è dubbio che viviamo in una fase assai articolata, di grandi mutamenti in cui cambiano gli schemi di gioco ancor prima che le stesse alleanze. Siamo alla ricerca di un ‘nuovo ordine globale’ e non sarà facile trovare e ritrovare un nuovo assetto di equilibri. é fase di intemperie di cui non è facile scorgerne la fine e gli effetti, che potrebbero essere ben più impattanti di quanto immaginiamo.


Redazione Agenzia Stampa Italia

 

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