Afghanistan. Dopo la grande disfatta Occidentale, quale sarà il ruolo di Pechino?

1310092289 16274695748081n(ASI) La prima volta toccò ai britannici nel 1842, durante il cosiddetto Grande Gioco, la sfida ingaggiata con l'Impero Russo per il controllo delle strategiche regioni centrasiatiche, a cavallo tra la Steppa e la catena del Karakorum. Inseritisi nella critica fase di transizione dall'Impero Durrani all'Emirato Barakzai, cercando di riportare sul trono i primi a discapito dei secondi, i soldati di Sua Maestà rimasero vittime di una delle più grandi disfatte militari che la storia ricordi.

Dopo aver concluso un accordo con il Principe Wazir Akbar Khan, figlio dell'Emiro Dost Mohammad Khan, le truppe guidate da Sir William Elphinstone accettarono di lasciare Kabul per raggiungere la guarnigione britannica a Jalalabad. A circa metà strada, la lunga colonna, composta da circa 4.500 militari e 12.000 civili al seguito, sia inglesi che indiani, fu attaccata e massacrata dalle tribù afghane nei pressi del villaggio di Gandamak.

A 179 anni di distanza, ciò che resta delle truppe e del personale occidentali, attivi nel Paese nel quadro della missione Resolute Support (affiancata a quella statunitense Freedom's Sentinel), è costretto ad una fuga frettolosa da Kabul di fronte all'avanzata implacabile dei Talebani, il movimento politico-religioso sorto nel 1994, cui l'Amministrazione George W. Bush aveva dichiarato guerra nel 2001 in seguito agli attentati dell'Undici Settembre, con l'accusa di aver fornito sostegno e strutture ad al-Qaeda, la rete terroristica transnazionale fondata alla fine degli anni Ottanta dallo sceicco saudita Osama bin Laden.

Come scrisse Friedrich Engels nel 1857, «la posizione geografica dell’Afghanistan e la particolare natura del suo popolo conferiscono al paese una rilevanza politica che, nell’ambito degli affari dell’Asia Centrale, non sarà mai troppo sottolineata», ponendo l'accento sugli afghani, descritti come «coraggiosi, intrepidi e indipendenti», un popolo al quale «soltanto un odio irriducibile per l’autorità e l’amore per l’indipendenza individuale impediscono […] di diventare una nazione potente». Ironia della sorte, proprio il Paese che sulle teorie del filosofo tedesco e del suo sodale, Karl Marx, fondava la propria ideologia di Stato, cioè l'Unione Sovietica, si ritrovò impantanato nelle stesse sabbie mobili durante gli anni Ottanta del secolo scorso.

Accerchiate su più fronti dai numerosi gruppi di mujaheddin, forti anche del sostegno dei servizi di intelligence statunitensi, britannici, sauditi e pakistani, le truppe dell'Armata Sovietica furono costrette al ritiro nel 1989, lasciando che il conflitto deteriorasse per altri tre anni sino alla caduta della Repubblica Democratica (di orientamento marxista-leninista), guidata da Mohammad Najibullah. Seguirono quattro anni di fortissima instabilità e conflitti tra le fazioni che pochi anni prima avevano combattuto fianco a fianco contro i sovietici, sino alla definitiva presa di Kabul nel 1996 da parte dei Talebani, ai quali tuttavia sfuggì il controllo della parte settentrionale del Paese, dove si impose invece l'Alleanza del Nord, che godeva di un ampio sostegno internazionale proprio in funzione anti-talebana.

 

Una clamorosa debacle

Venticinque anni più tardi, nemmeno due mesi dopo l'inizio del ritiro deciso da Washington e dalla NATO, gli Studenti coranici stanno assumendo il controllo dell'intero Afghanistan. Con la presa dei rispettivi capoluoghi, Mazar-i-Sharif e Faizabad, i Talebani hanno conquistato persino due province multietniche come Balkh, dove si era diretto il presidente uscente Ashraf Ghani prima di fuggire in Uzbekistan, e Badakhshan, ricca di miniere d'oro e lapislazzuli. In queste zone del Paese, la popolazione di etnia tagika supera infatti quella pashtun e le minoranze hazara e uzbeka sono più numerose rispetto al quadro etnografico di molte altre province.

Come riporta Reuters, l'ex governatore di Balkh, il tagiko Atta Mohammed Nur, ha scritto appena due giorni fa su Twitter che «tutto le attrezzature del governo e delle forze speciali sono state consegnate ai talebani come risultato di una grande cospirazione», allo scopo di catturare lui stesso e l'ex vicepresidente Abdul Rashid Dostum, lo storico generale uzbeko che negli anni Novanta contribuì a formare all'Alleanza del Nord. Entrambi hanno recentemente trovato rifugio nel vicino Uzbekistan.

Uno sforzo appena maggiore ha richiesto invece la conquista di Faizabad, caduta il 10 agosto dopo circa una settimana di combattimenti, secondo quanto dichiarato alla tedesca Presse-Agentur dal consigliere provinciale Ahmad Jawid Mujadidi e Abdul Wali Niazi, rappresentante del Badakhshan al Parlamento nazionale. In questo caso, come riporta il turco Daily Sabah, tutti gli alti ufficiali locali e le forze di sicurezza sono stati in grado di riparare nel distretto di Warsaj, all'interno della vicina provincia di Takhar.

Non è andata altrettanto bene ad un altro storico leader dell'Alleanza del Nord, il tagiko Ismail Khan, ex governatore della provincia di Herat (2001-2004) ed ex ministro dell'Energia e delle Risorse Idriche durante il governo Karzai (2001-2014), catturato dai Talebani lo scorso 12 agosto proprio nella Perla del Khorasan, già capitale dell'Impero fondato da Tamerlano nel XIV secolo, che appena un mese fa aveva ricevuto dall'UNESCO l'approvazione per l'inserimento, richiesto nel lontano 2004, all'interno del patrimonio mondiale.

Il rapido ritiro della coalizione ha chiaramente creato un vuoto di potere, innescando una rapida destabilizzazione che nessun consigliere a Washington, nemmeno i più pessimisti, riteneva così repentina. Soltanto cinque giorni fa, il Washington Post, citando funzionari statunitensi, riportava che la caduta di Kabul era stimata in circa 90 giorni, riducendo una precedente stima che parlava di un lasso di tempo compreso tra 6 e 12 mesi. Altri analisti avevano avanzato l'ipotesi di una possibile conquista entro un mese. Invece, la capitale è finita agevolmente in mano ai Talebani in appena quattro giorni. Questa discrasia tra previsioni e realtà, lascia intuire che l'intelligence statunitense, per quanto incredibile, non avesse in alcun modo il polso della situazione in atto nel Paese.

La facilità con cui le milizie stanno avanzando quasi ovunque senza praticamente incontrare resistenza, ad eccezione di qualche schermaglia, dimostra non soltanto un ritrovato (o forse mai sopito) consenso presso larga parte della popolazione, ma porta anche a ritenere che l'offensiva sia stata segretamente organizzata già da marzo 2020, dopo l'accordo raggiunto alla fine di febbraio in Qatar tra l'Amministrazione Trump e il leader talebano Abdul Ghani Baradar per il ritiro definitivo di tutti i contingenti militari stranieri.

 

Cina, nessuna ingerenza ma patti chiari

Senza dimenticare il coinvolgimento dell'Afghanistan nell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, dov'è Stato membro osservatore già dal 2012, l'intesa dell'anno scorso era stata salutata con favore dall'intero Consiglio di Sicurezza ONU, Russia e Cina comprese. Proprio attorno al ruolo di Pechino ruotano ora gli interrogativi di molti analisti ed esperti, specie dopo l'incontro dello scorso 28 luglio a Tianjin tra una delegazione dei Talebani, guidata dallo stesso Baradar, e il ministro degli Esteri Wang Yi.

Il capo della diplomazia di Pechino, citato da Xinhua, in quell'occasione aveva descritto il movimento afghano come «una forza militare e politica cruciale, chiamata a svolgere un ruolo importante per la pace, la riconciliazione e il processo di ricostruzione del Paese». Riconoscendo in anticipo ai Talebani una funzione determinante, Wang aveva chiaramente intuito le dinamiche in atto e l'inevitabilità di un'evoluzione della situazione che oggi appare a tutti scontata. Senza badare troppo alla forma diplomatica, il ministro cinese aveva affermato che «l'improvviso ritiro delle forze statunitensi e della NATO dall'Afghanistan segna il fallimento della politica afghana di Washington».

Conformemente alla sua tradizionale dottrina di politica estera, caratterizzata dai Principi di Coesistenza Pacifica fissati a Bandung nel 1955, Pechino ha ribadito che rispetterà l'integrità territoriale dell'Afghanistan e non interferirà negli affari interni del Paese, una garanzia che le potenze occidentali, ma anche la Russia, non potranno dare agli afghani ancora per molto tempo. Tuttavia, Wang ha esortato i Talebani a «mettere i propri interessi nazionali al primo posto, tenere alta la bandiera del dialogo pacifico, stabilire l'obiettivo della pace, creare un'immagine positiva ed adottare una politica inclusiva».

In qualsiasi altro incontro diplomatico si tratterebbe di auspici formali o di semplici dichiarazioni da protocollo ma in questo caso le parole pronunciate sono pesanti come macigni, forse decisive: «Tutte le fazioni e i gruppi etnici in Afghanistan dovrebbero restare uniti, attuare il principio di sovranità ["Guidato dagli Afghani, controllato dagli Afghani", ndt], promuovere la pace e il processo di riconciliazione per raggiungere prima possibile risultati sostanziali».

Citando esplicitamente il pericolo posto dai gruppi terroristici attivi nello Xinjiang, Wang ha chiesto ai Talebani di prendere nettamente le distanze da questi e di lavorare per creare condizioni favorevoli alla pace, alla stabilità e allo sviluppo nella regione. I due Paesi condividono infatti un breve ma importante tratto di confine tra la regione autonoma a maggioranza uigura e il corridoio del Wakhan, impervio territorio montuoso non facilmente controllabile che si sviluppa all'interno della catena del Pamir.

Da parte sua, Baradar ha espresso l'intenzione di lavorare con tutte le parti per creare una struttura politica inclusiva e ha fornito rassicurazioni in tema di protezione dei diritti umani per tutta la popolazione, inclusi donne e bambini. I Talebani, secondo quanto dichiarato durante l'incontro, auspicano un coinvolgimento più forte della Cina nel processo di pace e ricostruzione, affinché il gigante asiatico possa giocare un «maggior ruolo nello sviluppo economico e nella ricostruzione del futuro del Paese». Baradar ha anche assicurato tutti gli sforzi necessari per dare vita ad un ambiente favorevoli agli investimenti.

Considerando il passato, è lecito mantenere la massima prudenza rispetto a queste dichiarazioni di intenti. Tutto è ancora da dimostrare sul campo, a partire dalla struttura di governo che dovrà nascere dopo il 31 agosto, quando le truppe e le delegazioni straniere saranno state completamente evacuate. La leadership talebana, composta da una nuova generazione di dirigenti, probabilmente più colti e pragmatici, potrebbe adottare un approccio effettivamente diverso, almeno in parte, da quanto fatto in passato.

Il primo passo che la Cina sembra aver compiuto è di prendere atto del largo consenso riscosso dai Talebani sia tra la popolazione civile che tra i quadri militari del Paese. Il secondo sarà evidentemente quello di osservare dall'esterno l'evoluzione politica in autunno. Il terzo vedrà presumibilmente Pechino stabilire, anche con la partecipazione del comune alleato pakistano, i primi contatti con il nuovo governo afghano per proporre nuovamente a Kabul un piano di investimenti - in primis nelle infrastrutture - da racchiudere nel più vasto progetto Belt and Road. Come direbbero i tedeschi: «Wandel durch Handel».

 

 

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 

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