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Che succede in Bahrain? Intervista a Jassem Hussein, deputato sciita

(ASI) Il Bahrain è un arcipelago del Golfo Persico dove da decenni vige una monarchia di confessione islamica sunnita, alleata dell’Arabia Saudita e di stampo filo-occidentale.

Questo paese nel febbraio scorso è stato investito dai venti di rivolta che hanno animato gran parte del mondo arabo. Tuttavia, sebbene la rivolta del Bahrain sia stata fin da subito una delle più partecipate, i media occidentali non le dedicano molte attenzioni. Al fine di far conoscere all’opinione pubblica italiana la realtà di quanto è avvenuto e avviene ancora nel suo paese, Jassem Hussein, studioso del mondo arabo e deputato indipendente nel parlamento del Bahrain, è giunto a Roma, dove lo abbiamo incontrato per rivolgergli qualche domanda.

Dott. Hussein, all’estero c’è chi interpreta l’attuale crisi nel suo paese come uno scontro esclusivamente confessionale tra la maggioranza sciita e i sunniti, i quali appoggiano l’attuale monarchia. Può aiutarci a comprendere meglio la questione, spiegandoci quali sono le rivendicazioni che hanno spinto in strada molti cittadini del Bahrain?

Anzitutto ci tengo a ringraziarvi per questa intervista. Dunque, la nostra in Bahrain è una battaglia politica, non una guerra confessionale. Le nostre richieste sono strettamente politiche, ovvero che possa attuarsi uno stato democratico e civile, non uno stato fondato sulla religione. Inoltre chiediamo che non ci sia discriminazione tra cittadini, che il governo venga democraticamente eletto, che il parlamento abbia piene competenze e che le circoscrizioni già esistenti possano riflettere la reale volontà dei loro elettori. Ribadisco quindi che è in primo luogo una questione politica. Ciò non toglie che vi siano dei gruppi che vogliono dare a queste battaglie un’impronta confessionale, e purtroppo nel Bahrain c’è chi si lascia coinvolgere da questa strumentalizzazione, anche perché la maggior parte degli oppositori sono sciiti. Tuttavia posso confermare che le rivendicazioni sono in primo luogo politiche e chi ne dà un’interpretazione confessionale lo fa per interesse.

Nel mese di maggio, nel Bahrain il parlamento di cui lei è membro ha approvato un 44% di aumento della spesa pubblica per il 2011-2012 rispetto al biennio precedente. Anche alla luce del “dialogo nazionale” voluto dalla monarchia e partito ad inizio luglio, crede che questi soldi possano essere investiti per promuovere quelle riforme che una larga parte della popolazione richiede?

Certamente, questo che ha detto lei potrebbe essere utile per promuovere delle riforme, del resto lo Stato ha un ruolo importante nell’economia del Bahrain: le spese pubbliche rappresentano un terzo del Pil. Più si aumentano le entrate petrolifere più lo Stato può incassare soldi, e investire questi incassi potrebbe essere una sfida interessante tesa a creare nuovi impieghi, nuovi progetti abitativi, contribuire insomma ad una crescita economica. Rimane tuttavia il problema principale, ovvero quello politico. Noi pensiamo che economia e politica debbano camminare parallelamente, perciò riteniamo che risolvere i problemi politici contribuirebbe a portare una stabilità economica; così come, viceversa, risolvere i problemi economici porta stabilità in politica.

A suo giudizio, per quale motivo i media occidentali non si sono dedicati alla rivolta del Bahrain - molto partecipata dal popolo e soppressa in modo cruento dal regime - così come invece hanno fatto per altre rivolte della cosiddetta “primavera araba”?

Personalmente non credo che l’Occidente abbia abbandonato il Bahrain. Questa è la prima volta nella storia in cui il regime del Bahrain riceve delle forti pressioni internazionali affinché vengano affrontate questioni serie, come il rafforzamento della democrazia e la fine delle discriminazioni. Il risultato prodotto è la commissione d’inchiesta creata dal regime - composta anche da ben noti personaggi di livello internazionale - la quale ha lo scopo di indagare sulle violenze avvenute sia nei confronti che da parte dei manifestanti. Forse l’Occidente ha dedicato un po’ meno attenzioni alla rivolta del Bahrain rispetto a quanto fosse necessario poiché ha ricevuto qualche pressione da parte dell’Arabia Saudita, un importante, grande e ricco Stato, tra i primi esportatori al mondo di greggio. L’Arabia Saudita ha fatto leva su questo suo enorme potenziale per dissuadere gli occidentali dall’occuparsi più di tanto della crisi nel Bahrain.

Wesley Clarke, generale americano in pensione, ha affermato mesi fa che le situazioni di Libia e Bahrain “non sono paragonabili”. Secondo lei è giusto considerare questa disparità di giudizio espressa da un influente ex militare come dettata da interessi di parte statunitensi? Sappiamo a tal proposito che, così come l’Arabia Saudita, anche il Bahrain è governato da una monarchia storicamente alleata degli Stati Uniti, ai quali ha concesso nel proprio territorio una base navale composta da 1.500 unità.

E’ vero in effetti che esiste una grande differenza tra Bahrain e Libia. In quest’ultimo Stato vi era un vero e proprio tiranno privo di pietà nei confronti del suo popolo, mentre nel Bahrain la questione è diversa. Bisogna tenere in considerazione l’importanza del Bahrain, la sua posizione nel Golfo Persico e il suo peso politico, oltre al fatto che possiede gas e petrolio; ciò lo rende un territorio molto delicato capace di poter comportare grossi cambiamenti geopolitici per tutta la regione. Per quanto riguarda la Quinta Flotta americana ospite nel Bahrain, io penso che gli Usa abbiano grande interesse che vi sia stabilità nel Bahrain, ma la stabilità non è riscontrabile là dove sono presenti discriminazione e corruzione. Washington desidera che ci sia stabilità nel Bahrain, ma deve sapere che per perseguirla è necessario accontentare la maggioranza, i cui diritti sono attualmente negati.

Gli Usa nel 2010 hanno stanziato cifre considerevoli in milioni di dollari per finanziare l’espansione della loro presenza militare nell’area persica, precisamente negli Emirati Arabi Uniti e nel Bahrain. Ritiene che questa scelta strategica statunitense, che gode dell’avallo del suo governo, precluda un interesse occidentale ad appoggiare le rivendicazioni di maggiore democrazia e libertà che giungono dal popolo del Bahrain? Questo incremento delle forze armate statunitensi in che modo può cambiare gli assetti geopolitici nella regione?

Penso che sia negli interessi degli Stati Uniti che nell’area persica ci sia maggiore democrazia. In tal senso va ricordato che il Partito Democratico americano - per bocca dello stesso presidente Obama - ha espresso pubblicamente questo desiderio. Io credo che l’11 settembre abbia dimostrato che il terrorismo si combatte attuando dei regimi democratici nel mondo arabo. Le “primavere arabe” possono costituire un’occasione storica da non perdere, anche perché quei governi che non concedono piena democrazia dovranno confrontarsi con il malcontento dei loro popoli che non si fermerà. Oggi tra i popoli vi è maggiore consapevolezza: la comunicazione è più forte rispetto al passato, i social network rappresentano uno strumento proficuo. Dunque ripeto: questo momento storico è un’occasione che non va persa per affermare la democrazia, sia per il Bahrain che per l’Arabia Saudita e altri paesi del Golfo Persico. Certo è che gli americani hanno nel Bahrain anche interessi legati al petrolio e alla loro presenza militare, per cui auspicano che non scoppino insurrezioni troppo accese.

E’ d’accordo con chi ritiene che la lotta del popolo del Bahrain venga ignorata dai governi occidentali perché essi temono che la sollevazione in corso nel piccolo emirato possa costituire un esempio per altre nazioni di quell’area e dunque stravolgere assetti geopolitici oggi favorevoli all’Occidente?

Certo, sono d’accordo. Una delle maggiori insidie è costituita dalle conseguenze che potrebbero scaturire da un cambio nel Bahrain. Ci sono degli Stati che temono molto la prospettiva di una democrazia nel Bahrain, temono l’esempio di un parlamento forte, di una società civile più attiva e di una stampa più libera; per questo alcuni Stati intervengono per fermare questa protesta. Il loro tuttavia è un errore perché la democrazia è destinata prima o poi ad arrivare anche in Bahrain.

Quali sono questi Stati che avrebbero interesse ad ostacolare il percorso democratico del Bahrain?

Potrebbe esserci tra questi l’Arabia Saudita, ma ci sono anche paesi relativamente lontani dal nostro. Certamente ci sono poi alcuni Stati islamici dell’Asia, che temono che le stesse rivendicazioni possano avvenire anche da loro. Questi Stati però non possono opporsi, la democrazia arriverà anche da loro; del resto viviamo oggi nel mondo della globalizzazione, gli interessi da parte della gente, anche se vive in luoghi diversi, sono simili. C’è poi la questione demografica, la maggior parte della popolazione è da noi giovane, istruita, preparata per un cambiamento. E’ molto difficile pensare di arrestare il percorso democratico semplicemente reprimendo i nostri movimenti.

Non si tratta quindi di Stati occidentali?

No, tra questi non ci sono Stati occidentali.

Per sedare la rivolta l’attuale monarchia del Bahrain si è affidata anche al supporto di alcune truppe inviate dall’Arabia Saudita. Può spiegarci quali interessi spingono questo paese vostro vicino a sostenere la monarchia del Bahrain?

C’è più di un interesse. Per esempio l’invio di truppe da parte saudita nel Bahrain potrebbe essere interpretato come un messaggio che il regime saudita vuole inviare verso la sua popolazione sciita che vive principalmente nel versante orientale del paese (zona ricca di petrolio) e che rivendica diritti. Inoltre, la presenza di militari sauditi può essere una minaccia nei confronti del re del Bahrain affinché non faccia concessioni ai suoi cittadini.

Esistono le possibilità che i regimi filo-americani di Arabia Saudita e Bahrain possano essere abbattuti?

Non è questo il nostro obiettivo. Noi non vogliamo la testa del regime, bensì dei cambiamenti istituzionali: uno Stato di diritto, una costituzione, una monarchia ma anche un parlamento con piene competenze, una giurisdizione autonoma, un governo eletto. La presenza della monarchia, anzi, potrebbe anche rappresentare un elemento di stabilità. E’ nell’interesse della famiglia reale trasformare il paese in uno Stato di diritto.

Ha approfittato di questo viaggio in Italia per recarsi anche in Senato, a Palazzo Madama, dove insieme a una sua delegazione ha incontrato alcuni senatori del Gruppo del Partito Democratico. Durante l’incontro supponiamo abbiate parlato della situazione politica nel Bahrain; siete convenuti sull’opportunità di organizzare iniziative in Italia per porla all’attenzione di parlamento e opinione pubblica?

Sì, credo che ci saranno delle iniziative. Anzitutto vi sarà un’audizione per discutere della situazione del Bahrain, al fine di porla all’attenzione sia del parlamento che dell’opinione pubblica italiana. Ritengo quindi che questo incontro con i senatori Giorgio Tonini e Marco Perduca, rispettivamente capogruppo della Commissione esteri e segretario della Commissione per i diritti umani, possa a suo modo aver contribuito al processo democratico del mio paese.

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