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Neocon statunitensi e Likud israeliani ed il loro rapporto di stretta dipendenza
(ASI) Abbiamo incontrato Francesco Brunelli Zanitti giovane, ma molto preparato, saggista che di recente per i tipi delle Edizioni del Veltro, per conto dell’Isag, ha pubblicato il volume Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto. Ne abbiamo approfittato per parlare del suo libro e per fare il punto sulla politica militare mondiale ed il ruolo di Usa ed Israele sullo scenario globale.


Di recente ha scritto un saggio sullo strettissimo rapporto esistente tra Usa ed Israele. Ce ne vuole parlare?

La mia ricerca considera un particolare aspetto caratterizzante la speciale relazione esistente tra Stati Uniti e Israele, ovvero lo stretto legame tra il neoconservatorismo statunitense e il neorevisionismo israeliano, particolarmente evidente durante l’amministrazione di George W. Bush. Il saggio, analizzando le differenti origini storiche e ideologiche, nonché i difformi retroterra culturali dei due movimenti, ha come obiettivo la ricerca delle principali similitudini e differenze tra i due gruppi politici, considerando soprattutto la peculiare visione della politica estera e del ruolo di Stati Uniti e Israele nel mondo, teorizzata e successivamente adottata da neocons e rappresentanti del Likud una volta raggiunto il potere. Le finalità di questo libro non sono quelle di presentare un programma politico comune o un disegno cospirativo dei due movimenti; oggetto di questa ricerca è l’analisi storica di neoconservatorismo e neorevisionismo, mettendo a fuoco le cause che hanno portato alla loro ascesa politica. In seguito si è cercato di comparare i due gruppi, individuando le possibili conseguenze derivate dalla loro influenza esercitata sulla politica estera di Stati Uniti e Israele. La conclusione del mio saggio considera gli effetti negativi derivati dalla concreta messa in pratica degli ideali neoconservatori e neorevisionisti nella passata e attuale situazione vicino-orientale. Ad esempio, l’influenza politica dei due gruppi nelle relazioni internazionali ha generato un aumentato sentimento di diffidenza e sfiducia tra Stati Uniti e Israele da una parte e mondo arabo e musulmano dall’altra. Una delle cause di questa contrapposizione è derivata dall’ideologia fortemente intrisa di pessimismo e dall’autopercezione del carattere di eccezionalità di Stati Uniti e Israele, una visione inculcante un mondo contraddistinto da continue minacce e paure per la propria esistenza. A questo proposito, a conclusione del mio saggio, sostengo un ideale maggiormente aperto al dialogo interculturale, contrapposto alla teoria dell’inevitabile scontro tra civiltà proposto dal neocon Huntington. I due movimenti, in particolare il neoconservatorismo, sono caratterizzati dalla volontà di esportare forzatamente a determinate culture il proprio sistema di valori, tentando di eliminare quelli autoctoni senza tener conto delle conseguenze. Questo elemento è comunque in parte riscontrabile anche nel sistema statunitense generale, non solo in quello neocon. La mia opinione è che una determinata civiltà, con tutti i limiti insiti in questo termine, dei quali si potrebbe discutere a lungo, rappresenti un qualche cosa di peculiare, ma assolutamente non portatrice di caratteri universali da imporre ad altre culture. So bene che una simile visione potrebbe essere considerata utopistica e riconosco la sua difficile messa in pratica. Ritengo però che una politica che si basi sulla violenza continuata, rappresentata non solo dal conflitto armato, ma anche dall’imposizione di determinati valori, sia alla fine una via più semplice e banale, ma foriera di conseguenze negative. Penso comunque che il possibile declino statunitense e la nascita di un mondo multipolare possa andare nella giusta direzione. Bisognerà attendere gli sviluppi futuri e capire se gli Stati Uniti accetteranno il declassamento, condizione che, secondo il mio punto di vista, si pone in netto contrasto rispetto alla tradizionale autopercezione del proprio carattere missionario, salvifico per l’intera umanità; sono pessimista, inoltre, per quanto riguarda Israele: il rafforzamento negli ultimi anni dei gruppi più intransigenti del sionismo che hanno come obiettivo storico la creazione della “Grande Israele” dal Giordano al Mediterraneo, rappresenta un serio ostacolo alla pace in Vicino Oriente.

Perché la lobby ebraica è così potente a Washington?

Il sostegno statunitense nei confronti d’Israele non si spiega solamente in termini di strategia geopolitica. Lo Stato ebraico si trova naturalmente in una posizione fondamentale nel Vicino Oriente e nel Mediterraneo e gli interessi statunitensi nella regione sono collegati alla sicurezza d’Israele. Molto spesso, inoltre, il legame tra i due paesi è stato giustificato in base a criteri di carattere morale e religioso: negli Stati Uniti si sente sovente parlare di Israele come unica democrazia della regione, dunque da difendere per i suoi caratteri similari agli ideali statunitensi; oppure che gli ebrei hanno tanto sofferto nel passato e quindi devono essere difesi dagli attacchi contemporanei; infine, si utilizza la religione e la Bibbia, in un paese ancora profondamente sensibile ai temi religiosi, per spiegare il diritto riservato al popolo ebraico di difendere il proprio Stato, erede diretto dell’antico Regno d’Israele biblico. In realtà, penso che tutte queste motivazioni, tranne quella legata alla strategia geopolitica, siano sovente utilizzate retoricamente ed enfatizzate in particolare da gruppi politici come quello neoconservatore, in modo da giustificare determinate politiche altrimenti difficilmente realizzabili. Come ricorda nella sua domanda, esiste, infatti, una potente lobby filo-israeliana a Washington, la quale influenza direttamente la politica estera statunitense in Vicino Oriente. I suoi intenti hanno avuto buon fine a seconda dei periodi storici e in base alla positività o meno delle relazioni israelo-statunitensi. La lobby rappresenta una serie di individui e organismi molto potenti per i mezzi economici a disposizione, i quali controllano numerosi mezzi di comunicazione, tv, radio, giornali, periodici, circoli universitari e sono organizzatori di numerose conferenze e think tank. La mia opinione è che non si tratti di una società segreta che controlli interamente la politica statunitense. Essa pubblicizza la propria azione nel paese, basta consultare il sito ufficiale dell’AIPAC (The American Israel Public Affairs Committee) o quello dell’American Jewish Committee. Non ritengo che la poltica nordamericana sia influenzata solamente da questa lobby, poiché esistono, infatti, numerosi altri gruppi di pressione che influenzano l’amministrazione degli Stati Uniti; quella pro-israeliana è comunque una delle più potenti e ha sovente messo in difficoltà le amministrazioni del paese, sia repubblicane che democratiche. Durante l’ascesa neoconservatrice l’influenza della lobby si è fatta sentire decisamente. Bisogna considerare, inoltre, che la comunità ebraica più numerosa, dopo quella d’Israele, si trova negli Stati Uniti. Il problema dell’intera questione deriva dal fatto che non si può parlare apertamente della lobby israeliana e delle potenziali conseguenze negative derivate dalla sua eccessiva influenza nella politica statunitense, poiché si è incolpati di antisemitismo o di sostenere posizioni contrari all’esistenza di Israele. Come dimostro nel mio libro, è la stessa retorica accusa adottata costantemente da neocons e neorevisionisti per chiunque critichi le azioni violente di Israele, utilizzata per evitare il dibattito e il dialogo aperto.

Lo stato di Israele è nato grazie al sostegno di Usa, Urss ed Inghilterra. Come mai il paese si è progressivamente allontanato dal colosso comunista?

L’appoggio sovietico nei confronti del piano di spartizione della Palestina nel 1948 e della conseguente nascita dello Stato d’Israele era giustificato in base a criteri di carattere geostrategico. L’Urss aveva come obiettivo primario il consolidamento della propria influenza nell’area vicino-orientale, sostituendo potenzialmente la Gran Bretagna nella regione, in seguito alla fine del proprio mandato in Palestina. Un’eventuale alleanza con il futuro Stato ebraico avrebbe potuto garantire dei vantaggi in termini geopolitici per Mosca. Il successivo allontamento tra Israele e Unione Sovietica derivò dal sempre più forte legame che le autorità israeliane stabilirono con gli Stati Uniti, i quali individuarono in Israele un importante alleato nel contesto della Guerra Fredda in un’area strategica per le importanti risorse energetiche. La guerra di Suez del 1956, durante la quale Israele contò sul fondamentale sostegno di Francia e Gran Bretagna, rappresentò il momento culminante dell’allontanamento diplomatico tra Mosca e Tel Aviv. E’ da precisare comunque che in questo periodo Israele e Stati Uniti non erano ancora strettamente legati, come invece avverrà nei decenni successivi. Eisenhower fu particolarmente critico nei confronti di Israele per la guerra di Suez; gli Stati Uniti non sostennero militarmente Israele in quell’occasione e, nel caso in cui Tel Aviv non si fosse ritirata da tutti i territori egiziani occupati durante il conflitto, l’amministrazione nordamericana avrebbe interrotto tutti gli aiuti economici garantiti allo Stato ebraico. In questa fase storica gli Stati Uniti, dopo il crollo anglo-francese in seguito alla guerra di Suez, erano intenzionati a controbilanciare l’influenza sovietica come unici rappresentanti del mondo occidentale e non intendevano ancora abbandonare il mondo arabo. Ben Gurion era personalmente un ammiratore degli Stati Uniti e promosse negli anni successivi la creazione di uno stretto legame con Washington, coronato pochi anni dopo. L’alleanza israelo-statunitense crebbe considerevolmente a partire dagli anni ’60, con il contemporaneo ulteriore peggioramento delle relazioni tra Israele e URSS. Quest’ultima aveva cominciato a creare dei canali privilegiati con il mondo arabo, in particolare con l’Egitto di Nasser e la Siria, sostenuti in termini economici e militari. Il legame tra Egitto e URSS e l’influenza strategica sovietica sui paesi arabi in generale crebbe ancora di più dopo il 1967, dopo la guerra dei Sei Giorni, in seguito alla quale l’URSS e il blocco orientale ruppero le relazioni diplomatiche con Israele. In questo modo l’Unione Sovietica si ergeva a baluardo degli interessi arabi, controbilanciando l’appoggio economico, militare e internazionale degli Stati Uniti nei confronti d’Israele. L’allontamento tra quest’ultimo e l’URSS è dunque strettamente legato al contesto della Guerra Fredda e alla competizione geopolitica tra le due superpotenze.

Alcuni commentatori parlando dell’entità sionista usano il termine Usreale, secondo lei è corretto utilizzare questa terminologia?

Questa definizione non mi convince e non penso sia corretto utilizzarla. Come ho ricordato in precedenza, gli Stati Uniti non hanno avuto un tipo di rapporto con Israele dalle caratteristiche costanti. Nonostante l’attuale legame israelo-statunitense sia sicuramente una speciale alleanza, non ritengo adatto l’utilizzo di questo termine per descrivere lo Stato ebraico, nonostante l’esistenza stessa del paese sia garantita in gran parte dalla protezione economica e militare di Washington. In realtà penso che il legame tra i due paesi, particolarmente durante l’ascesa neocon, sia caratterizzato paradossalmente da una maggiore influenza di Tel Aviv nei confronti degli Stati Uniti. Ritengo questa terminologia troppo semplificatoria, se si considera l’attivismo nelle relazioni internazionali d’Israele. Tel Aviv ha attualmente una serie di importanti rapporti diplomatici con diversi paesi a livello mondiale, anche con il mondo arabo, attivate con quest’ultimo sia nel presente che nel passato, se si pensa all’asse Ryad-Tel Aviv in funzione anti-iraniana, o ai legami con l’Egitto di Mubarak. Non ritengo gli Stati Uniti, nonostante abbiano grandi responsabilità, i soli artefici dell’attuale situazione in Vicino Oriente e dell’abbandono del popolo palestinese. Già nel 1948, infatti, re Abdullah I di Transgiordania (l’attuale Giordania), non ancora filo-statunitense, discuteva con il neonato Israele di una possibile spartizione della Cisgiordania, divisione poi tramontata per le possibili ripercussioni negative nell’opinione pubblica araba. Il discorso sulle responsabilità internazionali dell’intera vicenda riguardante il conflitto arabo-israeliano-palestinese e il sostegno alle politiche dello Stato ebraico, a mio parere, riguarda un ampio contesto storico, durante il quale le relazioni internazionali hanno subito delle modifiche. Senza dubbio si può parlare di una speciale e unica relazione tra Israele e Stati Uniti, sempre tenendo presente l’ambito storico e i rispettivi gruppi politici al potere. I neocons e i neorevisionisti hanno enfatizzato questa relazione, mentre, ad esempio, durante gli anni ’90 gli Stati Uniti imposero a Israele per i propri interessi geopolitici i negoziati di pace, poi tramontati.

È opinione comune dire che Israele rappresenti l’unica democrazia del medioriente. A suo modo di vedere ciò concorda con la definizione classica di democrazia?

Per quanto riguarda Israele, la definizione dello Stato ebraico come unica democrazia del Vicino Oriente è stata sovente utilizzata retoricamente come giustificazione offerta all’opinione pubblica statunitense ed europea per l’appoggio alle politiche israeliane. Personalmente ho dei dubbi a riguardo dell’effettivo carattere democratico d’Israele. A sostegno di questa tesi non prendo solamente in considerazione la discriminazione nei confronti degli arabi che avviene all’interno dello Stato ebraico o gli intenti volti all’annessione di gran parte della Cisgiordania con la continua colonizzazione in violazione delle risoluzioni internazionali. Come punto di riferimento ricordo la vicenda legata al “conflitto” esistente tra “nuovi storici” israeliani e vecchia storiografia, riguardante il revisionismo storico sulla nascita dello Stato, il conflitto con il mondo arabo, nonché il dibattito sull’Olocausto e il sionismo, argomento di una mia ricerca alcuni anni fa. A questo proposito prendo in considerazione la vicenda di Ilan Pappe, storico israeliano, il quale ha sostenuto il fatto che Israele sia una democrazia incompiuta. A questo proposito concordo con la sua visione, dal momento che Pappe, per aver messo in discussione il sionismo, considerato Israele una potenza coloniale e messo in luce, attraverso una documentata e ricca ricerca storica, l’avvenuta pulizia etnica dei palestinesi a partire dal 1948, ha subito un violento boicottaggio, unito alla diffamazione da parte del mondo accademico e di gran parte della società. Oggi Pappe lavora in Inghilterra perché gli è impedita una serena ricerca nel suo paese; in Israele non è possibile mettere in discussione determinate questioni; se gli stranieri che criticano Israele sono considerati antisemiti, in patria i critici israeliani o del sionismo sono visti come dei traditori della patria perché alcuni argomenti sono considerati tabù. In questo modo il pluralismo di idee, nonostante ufficialmente Israele sia considerata una democrazia, è palesemente impedito tanto da mettere in discussione il carattere effettivamente democratico del paese.

A settembre la Palestina chiederà il riconoscimento ufficiale come Stato. Secondo lei quale sarà l’atteggiamento del Palazzo di vetro?

Ritengo che la richiesta palestinese non verrà accolta totalmente, dal momento che molto probabilmente gli Stati Uniti porranno il veto in Consiglio di Sicurezza. Potrebbe esserci da parte dell’Assemblea Generale una proposta che conceda la condizione di “Stato osservatore” alla Palestina o la sua inclusione in alcune organizzazioni legate alle Nazioni Unite. Pochi mesi fa Netanyahu ha sostenuto che Israele non ritornerà mai ai confini precedenti al 1967, rispondendo a una richiesta in tal senso di Obama. Ciò dimostra, unitamente all’intransigenza del capo del Likud, la distanza tra l’amministrazione democratica e l’attuale premier israeliano; credo comunque che sia altamente improbabile che gli Stati Uniti si discostino totalmente da una politica filo-israeliana e appoggino le richieste palestinesi. Per quanto riguarda Israele non stupisce che a poche settimane dalla richiesta palestinese all’ONU siano ricominciati gli scontri con Hamas a Gaza, dai quali naturalmente possono derivare implicazioni positive solamente per Tel Aviv, non certo per la questione palestinese, né soprattutto per la popolazione di Gaza. Anche la Germania, paese membro quest’anno del Consiglio di Sicurezza, si è espressa a sfavore della richiesta palestinese, chiedendo da parte delle autorità palestinesi un riconoscimento preventivo d’Israele. Nonostante ritenga che la domanda non verrà accolta, potrebbe essere una buona occasione affinché la questione palestinese riacquisti risalto a livello internazionale. Potrebbe essere una valida opportunità per valutare l’azione del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) dal momento che sia l’India sia il Brasile sono presenti nel Consiglio di Sicurezza e tutte e cinque i paesi hanno riconosciuto lo Stato palestinese in seguito alla dichiarazione d’indipendenza palestinese nel 1988. Anche se attualmente si tratta di un organismo principalmente economico, una comune azione politica futura da parte dei paesi emergenti a favore della Palestina, contemporaneo all’attuale fase di declino degli Stati Uniti, potrebbe risultare positiva; resta da capire comunque se esistano dei margini di manovra comune e dei risvolti geopolitici che favoriscano l’azione dei paesi in questione; altrimenti l’appoggio nei confronti dei palestinesi non ci sarà neanche da parte del BRICS.

Gli Usa appaiono una potenza in lento declino, anche le ultime disavventure legate al rischio default sembrano confermarlo. A suo dire lo storico alleato potrebbe risentire dell’indebolimento di Washington? E, se sì, in che misura?

Penso che Israele potrebbe subire delle conseguenze negative durante l’attuale fase di lento declino statunitense. Gli USA garantiscono non solo un importante appoggio morale e militare, ma anche economico. Gli Stati Uniti sembrano maggiormente inclini a considerare i propri interessi nazionali, come dimostra la recente intenzione di abbandonare l’Afghanistan. Bisogna comunque valutare gli effetti della crisi nei prossimi anni e chi vincerà le elezioni nel 2012. Sarà necessario capire quale indirizzo percorrerà il partito repubblicano, poiché, nonostante il neoconservatorismo sia sicuramente un movimento in declino, non è detto che non ritorni in auge. Collegandomi a questo aspetto ho comunque dei dubbi circa il fatto che gli Stati Uniti abbandoneranno facilmente il proprio ruolo di superpotenza, data la propria autopercezione di eccezionalità e il compito missionario che pensano di ricoprire a livello mondiale. Nonostante la crisi economica statunitense sia evidente e molto pesante, ritengo che Washington stia comunque cercando di mantenere il proprio ruolo globale, riscontrabile ad esempio nel tentativo di ridisegnare il Nord Africa e il Vicino Oriente, vedi i recenti casi libico e siriano, mantenendo un occhio di riguardo per il proprio alleato nell’area. Israele probabilmente non verrà più sostenuto mediante costose campagne militari, ma con altri mezzi, in modo da difendere gli interessi israeliani e statunitensi e per impedire il lento declino di Washington. L’aspetto dell’eccezionalismo statunitense, nonostante abbia una forma diversa a seconda dei periodi storici, è un elemento identitario molto forte negli Stati Uniti e non credo venga abbandonato tanto facilmente.

In che modo il neoconservatorismo e il neorevisionismo hanno influito nello scontro con altre culture?

L’autopercezione dell’assoluto carattere di eccezionalità di Stati Uniti e Israele, unito alla considerazione della propria indispensabilità e superiorità morale rispetto alle altre nazioni che giustificano un’ingerenza interna nei confronti degli altri Stati, così come l’idea di essere esenti da quelle leggi inesorabili della storia, sono tutti elementi che hanno influenzato direttamente la politica estera di questi paesi e generato uno scontro con il mondo arabo e musulmano. Altri aspetti peculiari dei due movimenti e forieri di conseguenze negative sono la considerazione positiva delle azioni militari unilaterali, anche preventive, in difesa da determinate minacce, come ho cercato di dimostrare nel libro, esageratamente enfatizzate al fine di creare un clima di terrore adatto all’accettazione da parte dell’opinione pubblica di determinate politiche. Questo potere è stato utilizzato soprattutto per nascondere precisi obiettivi geostrategici: le guerre statunitensi in Afghanistan e Iraq avevano il chiaro intento di stabilire delle basi militari USA in territori strategici per i corridoi energetici e fondamentali per il contenimento di Cina, Russia e Iran. In questo caso il progetto egemonico statunitense non riguarda solamente i neocons. Una possibile interpretazione di quello che sta accadendo in Pakistan, paese nel caos per le violenze interetniche, ma anche per le dirette conseguenze dell’invasione afghana del 2001, è, a mio parere, un chiaro esempio delle volontà egemoniche statunitensi. Ho tentato di spiegare alcuni aspetti della questione in un articolo pubblicato recentemente sul sito di “Eurasia” (http://www.eurasia-rivista.org/gwadar-la-competizione-sino-statunitense-e-lo-smembramento-del-pakistan/9828/). Gli stessi intenti egemonici sono presenti nel neorevisionismo israeliano. Unito al potere della paura esiste l’enfatizzazione dell’odio nei confronti del nemico che ha spesso valori diversi: quello esterno, i sovietici durante la Guerra Fredda o i musulmani in generale dopo l’11 settembre per gli Stati Uniti; gli arabi, i palestinesi e i paesi favorevoli all’indipendenza della Palestina per Israele; ma anche interno, in entrambi i paesi i critici dei rispettivi movimenti erano descritti come traditori della patria. Ho cercato di dimostrare come i progetti egemonici di neocons e neorevisionisti abbiamo comportano non solo dei conflitti militari, ma anche un potenziale scontro tra culture diverse. Dunque ciò che sosteneva Huntington, ovvero che la fine della Guerra Fredda avrebbe generato uno scontro tra civiltà, è stato in realtà favorito dalla successiva azione statunitense e israeliana. Mi si potrà obiettare che considero solo l’azione negativa messa in atto da parte di Stati Uniti e Israele. Ritengo che questi due paesi siano i maggiori responsabili per il recente “scontro” con il mondo arabo e musulmano perché hanno ricoperto il ruolo del più forte, avendo avuto a disposizione potenti mezzi economici e militari.

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