La tragica fine di Aldo Moro e la crisi del processo di inclusione dei cittadini nelle istituzioni

CADAVEREMOROVIACAETANI copy(ASI) Roma - In occasione del Quarantesimo anniversario del rapimento e dell'assassinio di Aldo Moro, è doveroso fare alcune considerazioni sul significato e sulle conseguenze politiche susseguitesi.

Il 16 marzo 1978, un giorno dopo il 2022esimo anniversario dell'uccisione di Caio Giulio Cesare, e un giorno prima del 117esimo anniversario dell'Unità d'Italia, giorno della presentazione del quarto governo guidato da Giulio Andreotti, avvenne il sequestro del Presidente del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, statista, filosofo della politica e giurista.

La “Fiat 130” che trasportava Aldo Moro dalla sua casa romana nel quartiere Trionfale (zona Monte Mario) di Roma alla Camera dei Deputati, fu bloccata da un commando delle Brigate Rosse all'incrocio tra Via Mario Fani e Via Stresa. Gli uomini delle Brigate Rosse, dopo aver sopraffatto i cinque uomini della scorta del Presidente DC, uccidendo Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Giulio Rivera, Oreste Leonardi e Raffaele Iozzino, prelevarono Aldo Moro che rimase anche leggermente ferito durante il blitz.

Lo statista italiano venne portato dalle Brigate Rosse nel covo di via Camillo Montalcini e rinchiuso nella cosiddetta "Prigione del Popolo". Durante la sua prigionia di 55 giorni, Aldo Moro, scrisse numerose lettere, indirizzate per lo più ai familiari e alla dirigenza democristiana, tra cui a Benigno Zaccagnini, a Francesco Cossiga, a Giulio Andreotti, oltre che al leader del Partito Socialista Italiano Bettino Craxi, l'unico esponente del governo che sostenne a spada tratta la necessità di trattare con i brigatisti per salvare la vita di Moro.

Nelle interminabili giornate di prigionia, il leader delle Brigate Rosse, Mario Moretti, interrogò più volte Aldo Moro, come se fosse sottoposto ad un vero e proprio processo. Per ogni argomento, veniva poi stilato un verbale su un blocco a quadretti, per mano dello stesso Presidente della DC. I verbali, dattiloscritti dagli stessi brigatisti, costituiscono il cosiddetto “Memoriale Moro”, di cui attualmente non sono stati ancora ritrovati, né gli originali manoscritti di Moro, né le bobbine delle registrazioni che sono state fatte dagli stessi Brigatisti.

All'epoca, il governo a guida Dc scelse la “linea della fermezza” per chiudere ogni spiraglio di trattativa con le Brigate Rosse, perciò decise di mettere in dubbio l'autenticità degli scritti di Moro, ma il parere dei grafologi e dei famigliari e di chiunque abbia letto integralmente le lettere spedite dalla prigionia dello statista, è pienamente daccordo nel ritenere gli scritti veramente frutto della volontà di Moro.

Ogni tanto viene pubblicato qualcosa sul “Memoriale Moro”, ma, in realtà, non si conosce ancora oggi esattamente il contenuto di questo importante documento storico: pare che in esso sarebbero scritti alcuni segreti di Stato, alcune rivelazioni su alcuni episodi irrisolti della storia repubblicana, dai rapporti in seno alla DC, passando per il Golpe Borghese, Gladio e le compremettenti frequentazioni di colleghi di Partito, fino ad un presunto sistema di fondi neri e tangenti che poi verrà a galla nel 1992 con l'operazione “Mani Pulite”.

Sul “carteggio” Moro si è detto tutto e di più. In esso, praticamente, ci sarebbe la chiave di volta per comprendere oltre un trentennio di storia repubblicana italiana e la lenta crisi della Prima Repubblica che, secondo numerosi storici, iniziò proprio con la tragica fine dello statista pugliese, nel 1978.

Il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia,le Brigate Rosse, vedendo fallita ogni possibilità di trattativa con lo Stato per la liberazione dei loro compagni in carcere, decisero di concludere il sequestro uccidendo Moro.

Al Presidente della DC, venne comunicata l'intenzione di trasportarlo in un altro luogo, perciò fatto entrare nel portabagagli di una Renault 4 rossa, poi risultata rubata, e lo invitarono a coricarsi e a coprirsi con una coperta. A questo punto, lo uccisero, scaricandogli addosso dieci cartucce. Moro aveva 61 anni.

Le Brigate Rosse, come per volontà dello statista democristiano, si affrettarono a comunicare immediatamente il posto in cui la famiglia avrebbe ritrovato il corpo di Aldo Moro, in Via Caetani, a metà strada tra la sede della Democrazia Cristiana in Piazza del Gesù e quella del Partito Comunista Italiano in Via delle Botteghe Oscure.

Il 13 maggio, Papa Paolo VI, amico e alleato di Moro, officiò una solenne celebrazione per lo statista democristiana a cui parteciparono tutte le autorità repubblicane, trasmessa in televisione, ma a cui non partecipò la famiglia.

Per volontà della famiglia, in protesta con la dirigenza nazionale della Democrazia Cristiana, in loro opinione rea di non aver voluto fare nulla di veramente concreto per salvare la vita del loro collega di Partito, Moro fu sepolto, dopo la cerimonia del funerale in forma privata, nel Comune in Provincia di Roma, di Torrita Tiberina, dove lo statista originario di Maglie amava soggiornare in vacanza.

Il sequestro e la morte di Moro, probabilmente i 55 giorni più drammatici della storia politica repubblicana, hanno importanti significati sia dal punto di vista simbolico che storico - politico.

Intanto bisogna dire che il Presidente della Democrazia Cristiana, sia come Statista che come uomo politico, stava portando avanti una strategia che non era apprezzata né dalle frange più conservatrici del suo stesso Partito, né dai movimenti extraparlamentari di destra e di sinistra, né dalle super potenze internazionali.

In qualità di Ministro degli Esteri del governo Rumor (1973 – 1974), come rivelato da Francesco Cossiga diversi anni più tardi, Moro proseguì la politica filo – araba del suo predecessore Fanfani, riuscendo a strappare ai gruppi affiliati all' “Organizzazione per la Liberazione della Palestina” che dal 1968 stavano disseminando l'Europa di sanguinosi attentati, l'impegno a non fare attacchi terroristici in territorio italiano con la possibilità di “trasportare armi ed esplosivi, garantendo in cambio immunità”,come confermato da Bassam Abu Sharif, storico leader del “Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina”. Con questo atto, Moro si era inimicato sicuaramente lo Stato di Israele e gli Stati Uniti, poiché le organizzazioni per la liberazione della Palestina avevano appoggi militari e politici dell'Unione Sovietica.

Inoltre, Aldo Moro, fra il 1976 e il 1978, in qualità di Presidente della Democrazia Cristiana, aprì ad un possibile governo di “solidarietà nazionale” che includesse anche il PCI nella maggioranza, sia pure senza una presenza di ministri comunisti nel governo, almeno finché il Partito di Berlinguer non si fosse reso autonomo e staccato apertamente dall'Unione Sovietica.

Berlinguer, anticipò le mosse di Moro, e prese pubblicamente le distanze da Mosca, affermando che il PCI, fosse in grado di muoversi autonomamente nello scacchiere politico italiano e internazionale.

Con lo “strappo da Mosca”, il PCI, pose le basi per la costituzione di questo governo di “solidarietà nazionale”, che gli avrebbe potuto permettere di accedere a parte dei voti moderati della Democrazia Cristiana, e Moro perciò colse la palla al balzo per creare un fronte unico catto – comunista, improntato sulla “centralità del Parlamento”, in un momento di profonda crisi sociale in Italia e politica nello scacchiere della Guerra Fredda.

Questo possibile accordo che la storia ha ribattezzato “Compromesso Storico”, avrebbe portato probabilmente all'uscita dell'Italia dalla Nato e all'entrata del nostro Paese nel blocco dei Paesi “non allineati”, ipotesi che non poteva essere accettata ovviamente né dagli Stati Uniti e dai suoi “Alleati”, né dall'Unione Sovietica.

Gli Stati Uniti erano contrari all'accordo, poiché l'ingresso dei Comunisti al governo avrebbe sia potuto favorire una fuga di notizie su piani e stretegie militari segrete della Nato, sia avrebbe rappresentato una sconfitta politica e ideologica del modello capitalista.

Ma, nemmeno l'Unione Sovietica era contenta del possibile accordo “DC – PCI”, poiché i Sovietici erano ovviamente contrari alla completa autonomia del Partito di Berlinguer dalla loro influenza politica.

Il “Compromesso Storico” non era ovviamente ben visto nemmeno dalle frange extraparlamentari di destra e di sinistra. Nell'estrema destra neofascista si temeva la creazione di una grande coalizione antifascista e catto – comunista che facendo venire meno il valore della lotta al Comunismo in Italia, avrebbe isolato ancora di più quest'area politica.

Nella sinistra extraparlamentare, comunista – rivoluzionaria, questo patto di governo in Italia fra le due maggiori forze del Paese, la DC e il PCI, non poteva essere accettato, poiché avrebbe fatto venir meno il valore di ogni possibile svolta rivoluzionaria.

Tra l'altro, c'erano già state prima di quel fatidico 16 marzo 1978, delle manovre per eliminare politicamente Aldo Moro e far fallire i suoi progetti politici, come quelle tese a coinvolgere il politico democristiano nello scandalo “Lockheed”, ma la posizione dello statista sequestrato e rapito dalle Brigate Rosse, fu archiviata il 3 marzo 1978, cioè tredici giorni prima dell'agguato di Via Fani.

Pertanto, il rapimento e l'uccisione di Moro da parte delle Brigate Rosse, arriva in un momento in cui l'ala più conservatrice della Democrazia Cristiana, in difficoltà per le politiche “di apertura” del Presidente del Partito, riesce in un colpo solo a riprendere il pieno controllo della situazione e a riguadagnare il voto dei moderati che stava volgendo verso il Partito Comunista, anche a causa del forte senso di emotività popolare suscitato dal calvario dello statista DC.

Sul “Compromesso Storico” e sulla politica di Aldo Moro sono stati scritti numerosi libri, articoli di giornale, girati alcuni cinefilm, telefilm, e gli è stata dedicata anche una canzone da parte di Rino Gaetano, “E Berta filava”, come sarebbe stato affermato dallo stesso cantautore nel 1977 in un concerto a San Cassiano (BZ).

In realtà, il progetto di “Compromesso Storico” era pienamente in linea con la ideologia del politologo e la concezione di Stato e di Patria portata avanti dallo statista Aldo Moro.

Infatti, secondo Alessandro Fontana, politico DC, giornalista e docente universitario, recentemente scomparso, la politica di Moro era tesa a conciliare i tradizionali valori cristiano - popolari della Democrazia Cristiana con i nuovi valori laico - liberali della società italiana.

Moro, affermava che “di crescita si può anche morire”, poiché era probabilmente preoccupato che la Repubblica Democratica sarebbe entrata in crisi dinnanzi a una società italiana in rapida crescita. La sua sfida era proprio quella di far adeguare le istituzioni dell'apparato statale al progresso sociale portato avanti dal “miracolo economico”, che aveva portato l'Italia rurale a diventare in pochi decenni una delle grandi potenze industriali mondiali, con la conseguente nascita di una fervente coscienza civica – popolare e col risveglio di nuove categorie sociali che chiedevano una presenza attiva nella vita del Paese, come avevano dimostrato i movimenti di opinione e azione studenteschi, femministi e dei lavoratori dal 1968 .

Moro intendeva lo Stato democratico come uno “Stato del Valore Umano” che abbia il fine di garantire il decoro e la dignità di ogni singolo cittadino nella comunità nazionale cioè “fondato sul prestigio di ogni uomo e che garantisce il prestigio di ogni uomo” che poi è anche quello che è nei principi fondamentali della Costituzione Italiana che il giurista Moro ha contribuito alla stesura.

Nell'idea del prestigio, della dignità e del valore di ciascun individuo – cittadino, del Popolo, della Comunità Nazionale, si evincono i due capisaldi del pensiero “moroteo”: in primis l'inserimento di tutti nella vita istituzionale, in secondo luogo il riconoscimento del valore politico della società che si evolve e che reclama il suo ruolo.

D'altronde queste linee guida della politica “morotea”, si possono evincere più volte dai suoi discorsi, come ha fatto notare anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel 2011, attraverso un estratto del volume “Aldo Moro. Un percorso interpretativo”, in preparazione a cura dell'Accademia Aldo Moro per i tipi di Rubbettino.

Ad esempio, nel primo congresso da Segretario della Democrazia Cristiana nel 1959, Moro evocava “il problema immane della piena immissione delle masse nello Stato”, mentre nel 1966 affermava “vogliamo inserire nello Stato, in posizione di responsabilità tutti i cittadini” ed infine nel 1975, nel discorso tenuto a Bari nel trentennale della Liberazione, Moro ha affermato “nel corso di questi trent'anni, un numero sempre maggiore di cittadini e gruppi sociali ha accettato lo Stato nato dalla Resistenza”, poi specificando “sono entrati a pieno titolo nella vita dello Stato dei ceti lungamente esclusi. Si sono conciliati con la democrazia ceti tentati talvolta da suggestioni autoritarie o chiusure classiste”.

Quindi, nel 1959, Aldo Moro parla di “questo immane problema”; nel 1966 afferma “vogliamo inserire tutti”; ed infine nel 1975 è compiaciuto del fatto che questo inserimento della società nelle istituzioni dello Stato, è in gran parte avvenuto.

Dunque, l'inserimento di tutti nella vita istituzionale e politica era il principale risultato che voleva raggiungere la politica “morotea” per rafforzare le basi su cui fondare lo Stato Nazionale italiano, e in quest'ottica si potrebbero comprendere da prima l'entrata del Partito Socialista di Nenni al governo nella prima parte degli anni Sessanta e successivamente i tentativi di “Compromesso Storico” col Partito Comunista di Berlinguer nella seconda parte degli anni Settanta.

Ma, la situazione era diversa, perché i socialisti erano fin dalla “Rivoluzione Ungherese” del 1956, ufficialmente distaccati sia dal Partito Comunista, sia ovviamente dall'URSS, mentre il PCI era a tutti gli effetti ancora legato con Mosca, perciò il “Compromesso Storico” doveva essere impedito ed osteggiato a tutti gli effetti.

L'idea dell'accordo strategico col Partito Comunista, non è condivisa da tutti gli studiosi di Moro. Secondo il politologo “moroteo” Danilo Campanella, la reale strategia dello statista di Maglie era praticamente quella di “logorare il Partito Comunista”, magari, si suppone, inglobandolo in un soggetto politico unico democratico, isolando i più irriducibili ed estremisti, per arrivare al compimento dell'Unità Nazionale che secondo il Presidente della Democrazia Cristiana aveva ricevuto nuovo slancio e vigore dopo la “Resistenza” che lui considerava come un secondo “Risorgimento”, con la fondazione di un nuovo Stato, quello Repubblicano, su basi più ampie ed egualitarie rispetto al passato.

Purtroppo, la tragica morte di Moro, non ha segnato solo la drammatica fine di un essere umano, di un uomo di Stato, ma, bensì anche l'inizio della crisi di quel processo di inclusione dei cittadini nelle istituzioni repubblicane, basato anche su integrazioni economiche, con precise riforme all'interno dell'apparato politico dello Stato.

 

Cristiano Vignali – Agenzia Stampa Italia

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