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«Fascismo d’acciaio», intervista allo storico Fabei

(ASI) «Per certe forze politiche, e per una storiografia di parte, riconoscere che alcuni antifascisti siano stati membri delle commissioni interne elette durante la repubblica di Mussolini, e con l’assenso dei fascisti, ha costituito motivo di imbarazzo». A parlare è lo storico umbro Stefano Fabei, autore, tra l’altro, del recente libro Fascismo d’acciaio. Maceo Carloni e il sindacalismo a Terni (1920-1944) [Mursia, Milano, 2013, pagg. 366, euro 22]. In effetti, leggendo il volume dello storico, vengono fuori molte pagine del nostro passato nazionale che fino ad ora sono state ignorate per distrazione - o molto probabilmente di proposito - perché spesso ritenute imbarazzanti da alcuni «addetti ai lavori». «Si tende ad ignorare, o minimizzare i fatti – dice Stefano Fabei ad Agenzia Stampa Italia – di una realtà senza dubbio scomoda ma storicamente provata».

Chi era Maceo Carloni?

 

Un operaio che svolse la sua attività sindacale a Terni durante il fascismo. Nato nel 1899, di sentimenti mazziniani, dopo un breve e deludente soggiorno nella Russia dei soviet, in cui vide la repressione e la povertà lì dominanti, si avvicinò al sindacalismo fascista sperando di poter con esso realizzare le istanze di rinnovamento e progresso sociale nel mondo del lavoro. Sindacalista alle acciaierie, lottò per gli operai e i loro diritti; fascista critico, nel 1943 non aderì Repubblica di Salò, ma fu eletto dai lavoratori nelle commissioni interne insieme ad altri candidati, fascisti e antifascisti. Il 4 maggio 1944 fu assassinato da membri della Brigata «Gramsci», che lo temevano per il prestigio di cui aveva goduto, e continuava a godere, presso le maestranze.

 

 

Ci parla del sindacalismo fascista nel ventennio?

Fu un fenomeno complesso non illustrabile in poche parole. Possiamo però dire che, formato in parte da uomini provenienti dai sindacati di sinistra, si fece portatore delle istanze dei lavoratori e garante dello stato sociale che in Italia fu creato dal regime mussoliniano. Alcuni contratti di lavoro, firmati allora dai sindacati fascisti, come quello collettivo nazionale per gli operai degli stabilimenti siderurgici, sottoscritto nel 1940, rimasero in vigore anche dopo la fine della dittatura e questo significa che il regime repubblicano rispettò la disciplina collettiva dei rapporti di lavoro corporativi, ritenendola non in contrasto con le norme della Costituzione. In caso contrario, quei contratti non avrebbero potuto resistere al controllo, da parte dei giudici, della loro compatibilità con le disposizioni della Carta costituzionale. Queste considerazioni valgono, in particolare, per le clausole del contratto dei siderurgici, come, ad esempio, quelle relative all’apprendistato, all’istruzione professionale, al lavoro straordinario, festivo e notturno, alle ferie, alle gratifiche natalizie, al trattamento di malattia, gravidanza e puerperio, e al trattamento di fine rapporto: norme che sono ancora oggi di indubbia modernità.

 

Nelle commissioni di fabbrica furono eletti accanto ai fascisti anche socialisti e comunisti. È innegabile, quindi, che vi fossero dei collegamenti in campo sindacale...

Certamente. Quando il 1° marzo 1944 a Terni si svolsero le elezioni per la nomina delle commissioni di fabbrica, nelle liste furono inclusi, con l’assenso dei sindacati fascisti, elementi di sinistra, non solo comunisti, ma anche socialisti e anarchici, il cui obiettivo era inserirsi nel mondo delle rappresentanze sindacali, dalle quali per anni erano stati esclusi. C’era poi, in entrambi gli schieramenti, la volontà di protestare e opporsi al prelevamento operato dai tedeschi dei macchinari e dei materiali industriali.

Qual era l'intento dei comunisti e dei socialisti?

 

Ai compagni occupati negli stabilimenti e nei cantieri giunse dal vertice comunista la direttiva di nominare e far riconoscere dalla direzione le commissioni elette dagli operai, di cui qualche loro elemento doveva far parte, per tentare accordi con le direzioni degli stabilimenti «su un terreno antitedesco», e collegarle al «comitato di partito dell’officina». I comunisti, pochi e, per loro stessa ammissione, poco organizzati, dovevano prepararsi a farsi carico delle responsabilità che avrebbero assunto, finita la guerra, nel mondo sindacale da cui per circa venti anni la dittatura li aveva esclusi. Come scrisse allora Luigi Longo a Togliatti, in vista dell’imminente liberazione era necessario ricordare ai compagni che, appena fosse stato possibile alle masse controllare e dirigere le varie istituzioni operaie, essi ne avrebbero rivendicato il diritto: «Noi siamo contro oggi alle commissioni interne fasciste e ne boicottiamo con tutti i mezzi le elezioni, ma è evidente che domani, a liberazione avvenuta, procederemo immediatamente alla nomina delle commissioni interne operaie…». Va inoltre considerato che la RSI tentò, seppur tardivamente, di attuare la socializzazione delle imprese e questo progetto su alcuni esercitò un certo fascino…

 

Fabio Polese – Agenzia Stampa Italia

 

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