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Italiani detenuti all’estero. «In alcuni casi assistiamo a violazioni di Convenzioni internazionali e Accordi bilaterali»

(ASI) Le voci dei tremila italiani detenuti all’estero spesso rimangono inascoltate. Complice il silenzio assordante da parte dei nostri media e della la diplomazia italiana, che non sempre riesce a far fronte in maniera adeguata a queste situazioni. In diversi Paesi vengono negati anche i più elementari diritti sanciti dalle convenzioni internazionali. Per capire meglio la situazione dei nostri connazionali detenuti oltre confine, Agenzia Stampa Italia ha intervistato l’avvocato Luca Santaniello, titolare di uno studio legale internazionale ed esperto conoscitore dei trattati e delle convenzioni in materia di diritti umani e giustizia.


Quali sono le difficoltà maggiori che devono affrontare gli italiani accusati all'estero?

Le difficoltà maggiori derivano dalla scarsa conoscenza del sistema giuridico penale del Paese in cui si è arrestati. A ciò si aggiunga, nella maggior parte dei casi, la poca conoscenza della lingua straniera, il che molte volte induce a sottoscrivere deposizioni o a fornire dichiarazioni di cui non sempre ne abbiamo la piena cognizione. Dipendendo poi del Paese in cui è avvenuto l'arresto, sorgono altre difficoltà, soprattutto di carattere emotivo, sanitario ed ovviamente economico. Dispiace constatarlo, ma un conto è essere arrestati in Norvegia, altro invece in Thailandia o in Honduras. Anche la difesa assume le caratteristiche del Paese in cui ci si trova e a volte la preparazione e la professionalità (ed anche l'onestà) sia dei giudici che degli avvocati, costituisce un vero e proprio ostacolo.

Che ruolo hanno le istituzioni italiane?

Le istituzioni italiane hanno diversi ruoli ed è bene rimarcarli, anche per evitare di indurre ad errori e fraintendimenti. Innanzitutto i consolati italiani, i quali non possono fare miracoli, questo è certo. L'intera rete consolare italiana è in grado di fornire ai cittadini italiani arrestati all'estero, la cd. protezione consolare, la quale in parole povere, si concretizza in una prima visita alla persona tratta in arresto, in una lista di avvocati locali «prediligendo» quelli che possono comunicare in italiano, nell'assicurare il contatto coi familiari in Italia e nel verificare, periodicamente, le condizioni mentali e di salute dei detenuti nel corso del processo e della detenzione. A dirlo sembra molto, ma nella realtà dei fatti, è troppo poco per un Paese civile ed avanzato come il nostro, ma non è certamente colpa dei consolati italiani, se mancano risorse umane ed economiche per affrontare tali evenienze. L'importante però è pressarli, ricordargli costantemente, anche alzando la voce, gli obblighi a cui sono tenuti, comunicargli particolari richieste ed esigenze dei detenuti, segnalare eventuali negligenze o abusi da parte degli avvocati da loro indicati (che sia chiaro, sono a spese del detenuto). Inoltre, l'assistenza dei consolati nei confronti dei detenuti non è sempre uguale per tutti, e ciò crea a volte, una sorta di guerra tra poveri. Ad esempio, ci si chiede perchè un caso è coperto mediaticamente, oppure maggiormente seguito dal consolato o anche dallo stesso Ministero degli Esteri; perchè un consolato garantisce una visita in carcere al mese, altri una a semestre; bene, non tutti i casi sono uguali, non tutti consolati dispongono dello stesso budget e molte volte a fare la differenza sono anche il coraggio e la tenacia dei detenuti e dei loro familiari ed amici. Dal punto di vista diplomatico, invece, l'Italia fa ben poco, soprattutto se facciamo il paragone con la Spagna, il Canada o gli Stati Uniti. In alcuni casi, assistiamo a vere e proprie violazioni di Convenzioni internazionali e Accordi bilaterali, ma non si provvede a denunciare tali violazioni tramite gli strumenti previsti dalle stesse convenzioni ed accordi. Abbiamo dovuto aspettare che la situazione dei marò in India degenerasse prima di intavolare con uno tra i più grandi Stati del mondo, un accordo che consentisse il trasferimento delle persone condannate. Inoltre, sarebbe ora di aggiornare i rischi legati ai viaggi e ai soggiorni in determinati Paesi, non limitandosi alla solita febbre gialla. Le faccio un esempio, se ormai, quello dei cd. muli, cioè i passeggeri che trasportano droga (a volte anche a loro insaputa) non rappresenta più un caso isolato, soprattutto in determinate aree geografiche, sarebbe opportuno avvisare i viaggiatori che consultano le guide turistiche istituzionali, circa l'esistenza di tali rischi, in modo da poter prestare più attenzione. Per il resto, sono un tecnico, mi attengo ai fatti e mi adeguo agli strumenti di cui dispongo, non posso permettermi il lusso di proporre politiche di ritorsione o iniziative sensazionalistiche. Ci sono dei ragazzi e delle ragazze da difendere e da portare a casa, ed in questa direzione canalizzo le mie energie. Siamo consapevoli di avere pochi strumenti a disposizione, per questo bisogna usarli nel migliore dei modi. Anche in Italia.

Cosa dice la Convenzione di Strasburgo?

Senza dubbio, la Convenzione di Strasburgo del 1983 sul trasferimento delle persone condannate, rappresenta uno di questi strumenti, in molti casi lo strumento più importante. Non tutti gli Stati fanno parte di tale Convenzione, ma con alcuni di essi, ad esempio India e Perù, l'Italia ha firmato accordi bilaterali sul modello della Convenzione di Strasburgo. In base a tale Convenzione la persona condannata in uno Stato contraente può chiedere di essere trasferita nel proprio Paese d'origine per continuarvi l'espiazione della pena. Uno dei requisiti essenziali per chiedere il trasferimento, è che la sentenza sia definitiva, cioè non più impugnabile. Quindi, in caso di condanna, quanto prima la sentenza diventa definitiva, tanto prima sarà possibile richiedere il trasferimento. In molti ritengono la richiesta di trasferimento come l'ultima spiaggia, io, invece, ritengo che sia il punto di partenza nei casi di arresto all'estero, soprattutto in Paesi dove la situazione della giustizia è infelice. A volte è opportuno indirizzare l'intera strategia difensiva al trasferimento. Bisogna essere realisti, studiare il Paese in cui ci si trova, difficile pretendere la giustizia in un Paese dove questa non c'è. A volte si ottiene solo il risultato di sprecare le proprie energie, anche economiche, per processi che possono durare anni e che hanno il solo scopo di arricchire avvocati incompetenti e disinteressati. Quindi bisogna farne non solo una questione di diritto, ma anche di tempo. Ciò non significa subire passivamente un'accusa, ma porre alcuni paletti e dare specifiche indicazioni a chi patrocina la nostra causa all'estero, accedere, ove possibile, alle forme di riti abbreviati previste dai diversi ordinamenti, non insabbiarsi in cavilli e richieste che avranno come unico risultato, quello di allungare il processo. Non siamo in Italia, di regola quando si è arrestati all'estero, il giudizio si attende in prigione, non ci sono cauzioni o misure alternative al carcere, le condizioni dei penitenziari sono quelle che sono, quindi è necessario fare presto. E' una partita a scacchi, dipende molto dall'avversario, dove ci troviamo, di cosa siamo accusati, ma l'importante è portarli a casa.

Come mai la Convenzione di Strasburgo e i diversi Accordi bilaterali non sempre vengono rispettati?

L'eventualità che non venga concesso o ritardato il trasferimento, dipende da diversi fattori. Non si accede automaticamente alla Convenzione. Dal momento che non sono posti limiti alla natura dei reati e delle condanne (a parte alcuni casi, come i reati politici nell'accordo tra Italia e Perù) è sempre possibile chiedere il trasferimento. Sia ben chiaro, il trasferimento è richiesto dal condannato, ma la procedura si instaura tra le autorità competenti dei rispettivi Paesi. Sarà, quindi, necessario che lo Stato di esecuzione, cioè lo Stato d'origine della persona condannata, comunichi allo Stato di condanna, vale a dire quello che ha emesso la sentenza, come intende dar seguito all'esecuzione della pena. Ma sarà sempre e solo lo Stato di condanna, a disporre o meno il trasferimento. Di solito questo viene negato se l'altro Stato non dà le dovute garanzie e spiegazioni, oppure in casi precedenti non abbia rispettato gli accordi presi. Poi è chiaro che se la persona sia stata condannata per l'omicidio di un cittadino del Paese di condanna, sarà più difficile che gli venga concesso il trasferimento. Per questo ribadisco che ogni caso è diverso ed è necessario studiare anche i precedenti dello Stato in cui si viene arrestati circa l'applicazione, il rispetto e la violazione della Convenzione o degli accordi.

Quando è stato firmato l’Accordo bilaterale tra Italia ed India?

L'accordo tra Italia e India sul trasferimento delle persone condannate è stato firmato a Roma il 10 Agosto del 2012 ed entrato in vigore in Italia il 30 ottobre 2012. Tuttavia, nonostante siano ancora da verificare le intenzioni dell'India (dal momento che l'accordo è recentissimo, non disponiamo di una casistica per l'India e ultimamente al Governo indiano piace mostrare i muscoli soprattutto con l'Italia).

Oltre ai due marò, in India, Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni sono rinchiusi a Varanasi, condannati all’ergastolo con l’accusa di aver assassinato il loro amico e compagno di viaggio, Francesco Montis...

Nel loro caso ancora non è possibile richiedere l'applicazione dell'Accordo, in quanto «la sentenza di condanna non è definitiva», essendo stato presentato ricorso alla Corte Suprema. Speriamo che non ce ne sia bisogno e i giudici di Delhi rendano giustizia ai due ragazzi italiani.

 

Fabio Polese – Agenzia Stampa Italia

Fabio Polese è autore, insieme a Federico Cenci, del libro «Le voci del silenzio. Storie di italiani detenuti all’estero», Eclettica Edizioni. www.levocidelsilenzio.com

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