Il "nuovo inizio" tra Cina e Giappone segna la strada verso il progetto RCEP?
448a5bd66cf31b71ca4507(ASI) La notizia può apparire insignificante, ma in realtà non è così. Lo scorso 31 gennaio, l'agenzia di stampa cinese Xinhua è ufficialmente sbarcata in Giappone con un nuovo pacchetto di servizi informativi in lingua locale.
Sebbene esistano già versioni in madrelingua dei canali per l'estero di Xinhua (inglese, francese, russo, spagnolo, portoghese e arabo), si tratta del primo prodotto multimediale aperto all'estero. Dopo aver lanciato Media Brain, una nuova piattaforma che integra informazione e intelligenza artificiale, Xinhua ha così centrato un altro successo di rilievo. Durante la cerimonia inaugurale, il presidente dell'agenzia stampa cinese Cai Mingzao, ha voluto sottolineare il raggiungimento di questo traguardo nell'anno che celebrerà il quarantennale della firma del Trattato di Pace e Amicizia tra Cina e Giappone.
Nel corso degli ultimi centocinquanta anni, tra i due Paesi non è certo scorso buon sangue, specie a partire dal 1894, con l'avvio del primo tentativo nipponico di invasione su vasta scala dei territori continentali dell'Estremo Oriente. Eravamo allora ai primi atti di un espansionismo cresciuto sull'onda entusiastica dei successi conseguiti durante l'era Meiji, quando l'occidentalizzazione del tessuto politico-economico permise al Giappone di diventare una potenza mondiale in appena un trentennio, dagli anni Settanta dell'Ottocento al vittorioso conflitto contro la Russia del 1905. Con la guerra del 1894-'95, il Giappone occupò l'intera Penisola Coreana, la Manciuria, la Penisola di Liaodong e Taiwan, sottoposte al rigido sistema del protettorato nipponico, dando il via ad un cinquantennio di guerre di conquista che devastarono e destabilizzarono gli equilibri dell'intera regione Asia-Pacifico, provocando ferite e lacerazioni ancora oggi non del tutto rimarginate.
Per questo, quasi quattro anni fa, quando il primo ministro giapponese Shinzo Abe cominciò a ventilare l'ipotesi di modificare l'articolo 9 della Costituzione nazionale, furono molti gli osservatori a preoccuparsi, anche e soprattutto in patria, per il pericolo di un potenziale ritorno al militarismo del passato, nascosto dietro la volontà ufficiale di poter disporre di un esercito vero e proprio, con compiti e funzioni superiori rispetto a quelli assegnati alle forze di autodifesa (Jieitai), create nel 1954 sotto l'egida degli Stati Uniti. Due anni prima, invece, la decisione di Tokyo di nazionalizzare le Isole Diaoyu, note in Giappone col nome di Isole Senkaku, aveva scatenato manifestazioni patriottiche di massa in numerose città cinesi per condannare il gesto e chiedere la restituzione di quei territori marittimi contesi, perduti alla fine della prima guerra sino-giapponese sulla base del Trattato di Shimonoseki del 1895, ancora rivendicati dal Kuomintang dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e dalla Repubblica Popolare Cinese sin dal 1949, ed infine nuovamente riassegnati al Giappone dagli Stati Uniti.
Su questo sfondo politico, dopo la normalizzazione dei rapporti sino-giapponesi culminata nella Dichiarazione Congiunta del 29 settembre 1972, sono via via cresciute anche le relazioni economiche e commerciali tra i due Paesi, soprattutto a partire dall'avvio delle politiche di riforma e apertura volute da Deng Xiaoping, consentendo già tra l'agosto e l'ottobre del 1978 di ratificare e rendere efficace il Trattato di Pace e Amicizia tra i due Paesi. Per tutti gli anni Ottanta e parte degli anni Novanta, nel pieno del periodo delle oche volanti, i colossi manifatturieri giapponesi trovarono nelle nuove zone economiche speciali cinesi una destinazione ideale per i loro investimenti all'estero.
Più tardi, invece, da un lato l'imponente crescita ed il dinamismo internazionale di Pechino convinsero i giapponesi ad accodarsi all'idea americana della necessità di contenere la Cina, passata nel giro di pochi anni da "opportunità" a "minaccia"; dall'altro lato, la bolla finanziaria del 1991 scaraventò ben presto Tokyo nella spirale deflazionistica del cosiddetto decennio perduto, da cui ancora oggi Abe cerca, non senza difficoltà, di uscire. Con la crisi finanziaria asiatica del 1997, inoltre, anche il vecchio modello delle oche volanti si avviò verso il definitivo tramonto. Questi eterogenei fattori politici ed economici hanno reso stagnanti per almeno una decina d'anni i rapporti tra Cina e Giappone.
 
Un nuovo inizio verso il Partenariato Economico Regionale?
Dopo le elezioni generali dello scorso ottobre, il Partito Liberaldemocratico Giapponese, principale forza del governo conservatore di centro-destra, ha sostanzialmente confermato la propria forza (33,28% dei consensi) ottenendo 284 seggi, con gli alleati di Komeito al 12,51% (29 seggi), sebbene abbia ottenuto consensi importanti anche l'opposizione del Partito Costituzionale Democratico (19,88%) di Yukio Edano, nato appena venti giorni prima del voto da una scissione interna al Partito Democratico Giapponese.
Se la polemica sulla revisione costituzionale aveva tolto qualche consenso ad Abe e al partito di governo, creando malumori anche all'interno della maggioranza, nell'ultima tornata elettorale potrebbe aver giocato un ruolo determinante la crisi nucleare nella Penisola Coreana. Di fronte all'atteggiamento spregiudicato di Kim Jong-un, infatti, la destra giapponese ha indubbiamente puntato tutto sul tema della difesa e della sicurezza. Eppure, proprio a partire dalla questione nordcoreana sembra essersi intensificato un dialogo, al momento proficuo, tra Pechino e Tokyo.
L'ultimo vertice APEC di Đà Nẵng, in Vietnam, ha registrato un incontro piuttosto prolungato tra il presidente cinese Xi Jinping e Abe. «Alla fine del vertice, il presidente Xi ha detto che questo incontro segna un nuovo inizio nelle relazioni tra Giappone e Cina. Sono assolutamente dello stesso parere», aveva detto Shinzo Abe ai microfoni dei giornalisti presenti. Il premier nipponico ha inoltre riconosciuto alla Cina un ruolo decisivo nella risoluzione della questione nordcoreana: una decisione storica, considerando il livello tradizionalmente molto elevato di dipendenza del governo giapponese dalla politica estera americana.
Con l'uscita di scena di Washington dal Partenariato Trans-Pacifico (TPP), Abe ha evidentemente compreso che le sue ricette economiche non sono sufficienti a risollevare concretamente le sorti del Giappone senza un nuovo respiro internazionale, adeguato al contesto globale attuale. La disponibilità della vecchia Banca di Sviluppo Asiatica (ADB), a guida giapponese, al cofinanziamento di alcuni progetti della giovane Banca per gli Investimenti Infrastrutturali in Asia (AIIB), a guida cinese, e l'apertura, sebbene timida, di Abe all'iniziativa cinese Belt and Road, mirata alla ricostruzione in chiave moderna delle antiche direttrici terrestri e marittime della Via della Seta, hanno cambiato notevolmente il quadro dei rapporti bilaterali.
Il 21 novembre scorso, pochi giorni dopo il vertice a Đà Nẵng, il primo ministro cinese Li Keqiang ha ricevuto una delegazione di imprenditori giapponesi in rappresentanza di oltre 250 tra le più importanti aziende del Paese del Sol Levante. Secondo quanto riportato da Xinhua, Li ha esortato gli interlocutori a «ricorrere alla loro influenza» per promuovere gli scambi reciproci dal momento che «lo sviluppo delle relazioni sino-giapponesi non può essere separato dalla promozione della cooperazione economica e commerciale». Eppure, il passaggio più importante di Li è arrivato quando ha affermato che «Cina e Giappone dovrebbero lavorare insieme per salvaguardare la globalizzazione economica, accelerare i negoziati per la creazione del Partenariato Economico Regionale Globale (RCEP) e le trattative per l'area di libero scambio tra Cina, Giappone e Corea del Sud, in modo da contribuire alla stabilità e alla prosperità della regione e del mondo».
Il dado è tratto. Con il probabile tramonto del TPP, vera e propria conventio ad excludendum commerciale pensata da Obama contro la Cina, a progredire sarà il progetto RCEP pensato da Pechino e finalizzato a creare una gigantesca area di libero scambio che comprenda i Paesi membri dell'attuale vertice ASEAN+6, ovvero i dieci Stati del Sud-est asiatico, la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, l'India, l'Australia e la Nuova Zelanda. Si tratterebbe, neanche a dirlo, della regione economica più estesa e ricca al mondo. Gli ostacoli possono essere molti e ancora tutti da affrontare, ma il più ingombrante di questi è senza dubbio quello rappresentato dai contrasti e dalle tensioni fra Pechino e Tokyo. Risolto quello, la strada potrebbe cominciare ad essere tutta in discesa.
 
 
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia
 
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