Brexit e congresso di partito. La resa dei conti per Theresa May

thersa is sad 777x400(ASI) Manchester- Dopo i laburisti è il turno dei conservatori. Il congresso di partito tocca anche a loro. Rientrata da Firenze, nell’opaca richiesta di una soft Brexit e nel tentativo di tutelare i diritti dei cittadini europei, Theresa May guiderà i lavori in un clima di rancore e divisioni A differenza dei laburisti, compatti intorno a Jeremy Corbyn, May sta seguendo una strategia molto pericolosa che l’ha portata nelle ultime settimane a inimicarsi lo zoccolo duro degli euroscettici all’interno del suo partito e i rappresentanti del continente con i quali dovrebbe negoziare l’uscita dall’Unione europea.


L’assemblea del partito di governo si concluderà mercoledì 4 ottobre con il discorso del Primo ministro, ma la sfida per la leadership sembra aperta e i giorni di May a Downing Street contati. Lo stesso ministro degli esteri Boris Johnson ha attaccato la leader intimandole di non attenuare la Brexit, mentre Ruth Davidson, la guida dei conservatori scozzesi, ha chiesto di «comportarsi come persone serie, con le idee chiare in testa sul da farsi come segno di maturità». Ala moderata contro ala euroscettica, May sembra al momento troppo debole per poterle gestire, tanto da lasciar presupporre un cambiamento al vertice.
A Bruxelles si sono già lamentati della lentezza di Londra. La richiesta del Regno Unito di concedere altri due anni al termine della scadenza dei tempi previsti per il negoziato (marzo 2019), suona di presa in giro fra i palazzi dell’Unione, come se fosse certa l’incapacità di Westminster nel prendere una decisione. Dopo il discorso di Firenze, gli inglesi hanno parlato di progressi. Presunti passi avanti ai quali ha risposto con fermezza Michel Barnier, incaricato negoziatore di Bruxelles: «Non ci sono stati i miglioramenti di cui parla David Davis (l’omologo inglese), contributi finanziari e diritti dei cittadini sono ancora sospesi. Non si potrà parlare di progressi fino a quando non saranno sciolti i nodi su questi due temi».
E sono proprio questi i problemi. Londra non vuole cedere alla corte europea di Giustizia il diritto di decidere sulle controversie dei cittadini dell’Unione. Dall’altra parte non se la sente di chiudere completamente le frontiere a risorse straniere come la manodopera e gli investimenti. May ha promesso i pagamenti dovuti a Bruxelles: il contributo finanziario europeo fino alla scadenza del 2020. Bilancio e aspettative degli impegni economici comunitari assunti a nome dei 28 per l’Unione devono però essere mantenuti da tutti i 28 fino alla loro scadenza. Questo comporta contributi londinesi ben oltre le scadenze desiderate dal Regno Unito e lo ha ribadito lo stesso Barnier.
Intanto il presidente del parlamento europeo Antonio Tajani ha rinviato a Tallinn qualsiasi discussione sul futuro partenariato con Londra, nel pieno interesse di un’Ue che vuole complicare la vita agli inglesi, mentre si attendono risposte dal congresso dei Tories. Le parti sono ancora lontane in un percorso che sta portando il governo May verso esiti inaspettati, forse sfuggiti al controllo dei politici e cittadini coinvolti.
È proprio questo il paradosso. Le conseguenze della Brexit stanno portando il Regno Unito verso la condizione che i sostenitori del Leave speravano di evitare con l’addio all’Unione. Maggiori tasse da pagare per finanziare la fuoriuscita e la permeabilità di frontiere sulle quali il Paese rischia di non poter decidere più. Paradossi politici al centro degli incubi di ogni euroscettico inglese, che ora rischiano di diventare reali per la debolezza del governo nazionale.
Lorenzo Nicolao – Agenzia Stampa Italia

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