Cina. Dalle aree contese alla Corea, aumentano le minacce alla sicurezza nazionale
170801123213 xi jinping military parade 0730 01 full 169(ASI) Giovedì scorso, il Ministero della Difesa Cinese ha denunciato ufficialmente la violazione delle acque territoriali nazionali da parte del cacciatorpediniere statunitense John S. McCain all'altezza della scogliere di Meiji, nell'Arcipleago delle Isole Nansha (Spratly).
In una nota, il portavoce del Ministero Geng Shuang ha aggiunto che la nave da guerra americana è stata immediatamente avvisata ed allontanata dalle fregate missilistiche cinesi Huaibei e Fushun.
Quella della Marina degli Stati Uniti è soltanto l'ultima manovra nel quadro di una più vasta operazione, avviata circa due anni fa dall'amministrazione Obama, finalizzata a garantire la cosiddetta "libertà di navigazione" in acque che Washington continua erroneamente a ritenere internazionali.
Richiamando l'ultimo vertice tra i ministri degli Esteri della Cina e dei Paesi del Sud-est asiatico ed i risultati positivi conseguiti nel mantenimento della stabilità regionale e nella risoluzione pacifica delle dispute attraverso il Codice di Condotta sul Mar Cinese Meridionale, il Ministero della Difesa Cinese ha sottolineato che «è ormai chiaro chi non vuole vedere la stabilità nel Mar Cinese Meridionale e chi è il principale fattore di militarizzazione» dell'area.
 
Più concretezza che esibizione
Le celebrazioni tenutesi in Cina tra la fine di luglio e l'inizio di agosto per il novantesimo anniversario della fondazione dell'Esercito Popolare di Liberazione (già Armata Rossa Cinese) hanno avuto l'effetto di catapultare all'estero immagini suggestive, come quelle relative alla parata militare presso la base di addestramento di Zhurihe, nella Regione Autonoma della Mongolia Interna. Diversi commentatori occidentali hanno descritto la sfilata dei mezzi militari nei termini di un'«esibizione muscolare», ma si tratta di una lettura molto semplicistica.
In occasione della parata del 3 settembre 2015, quando l'Esercito Cinese celebrò in Piazza Tienanmen il settantennale della vittoria sul Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, Xi Jinping aveva annunciato la riduzione del personale militare di 300.000 unità. Più di un osservatore aveva attribuito la scelta di razionalizzare ed ottimizzare le Forze Armate al clima di affaticamento economico che il Paese stava vivendo in quella fase. L'estate turbolenta del 2015 aveva registrato forte volatilità sulle piazze di Shanghai e Shenzhen, l'indice manifatturiero era sceso più volte sotto i 50 punti ed il commercio estero aveva rallentato. Eppure, al pari della riforma strutturale dell'offerta, pietra angolare delle riforme economiche messe in campo dal governo, anche la riforma militare era il frutto di un lungo lavoro preparatorio di rinnovamento, cominciato ancor prima dell'ascesa di Xi Jinping alla presidenza del Paese.
A parlare per la prima volta di modernizzazione ed informatizzazione (xinxihua) fu addirittura l'ex presidente Jiang Zemin nel 2002, in occasione del 16° Congresso del Partito Comunista Cinese, sostenendo la necessità di «innovare e sviluppare le teorie militari» ed esortando lo Stato maggiore «ad eseguire i compiti storici della meccanizzazione e dell'applicazione delle tecnologie informatiche». Dieci anni più tardi, durante il suo ultimo congresso da presidente, Hu Jintao fu ancora più chiaro a riguardo: «Dovremo assegnare grande importanza alla sicurezza marittima, alla sicurezza spaziale e alla sicurezza nel cyberspazio. Dovremo attivare piani di utilizzo dell'esercito in tempo di pace, espandere ed intensificare la preparazione militare e rafforzare la capacità di svolgere una vasta gamma di compiti difensivi, il più importante dei quali è quello di vincere guerre regionali nell'era informatica».
Nella visione di Xi Jinping, l'Esercito Popolare di Liberazione dovrà compiere ulteriori sforzi per costruire un apparato difensivo moderno, capace di vincere nel contesto della guerra informatica. Allestire un esercito più "leggero" ma più competitivo in tutte le dimensioni del conflitto, inclusa quella del cyberspazio, è dunque l'idea di base che muove la riforma militare cinese, andando ben al di là della semplice riorganizzazione amministrativa dei 4 dipartimenti generali, ristrutturati nelle 15 agenzie della Commissione Militare Centrale, e dei 7 comandi regionali militari del Paese, ridisegnati nei 5 comandi di teatro. Allo stesso modo, i cambiamenti vanno anche oltre l'apertura della base militare a Gibuti, di cui pure recentemente si è molto parlato, che avrà evidentemente il compito di monitorare la sicurezza dei traffici commerciali e dei cantieri legati alla componente navale dell'iniziativa Belt and Road (Via della Seta Marittima del XXI Secolo).
 
 
Aree contese: riaffermare la sovranità
Durante il discorso tenuto lo scorso primo agosto, davanti alla platea della Grande Sala del Popolo a Pechino, Xi Jinping ha posto l'accento sull'inviolabilità della sovranità cinese. «Il popolo cinese ama la pace», ha detto il leader del Paese asiatico, «non perseguiremo mai aggressioni o espansioni, ma siamo certi di sconfiggere qualsiasi invasione». «Non permetteremo ad alcuno Stato, organizzazione o partito politico - ha aggiunto Xi - di separare una qualsiasi parte del territorio cinese dal resto del Paese, in alcun momento ed in alcuna forma».
Si tratta ovviamente di un assunto fondamentale per qualunque nazione, ma presumibilmente anche di un messaggio diretto alla leadership pan-verde (centro-sinistra indipendentista) di Taiwan che, sfruttando le iniziali incertezze di Donald Trump, aveva cercato di tastare il terreno della nuova amministrazione statunitense scavalcando il diritto internazionale e cercando malcelatamente di accreditarsi come rappresentante di una repubblica indipendente.
Altri destinatari del messaggio potrebbero essere quei governi che stanno cercando di mettere in discussione la sovranità di Pechino sugli arcipelaghi contesi nel Mar Cinese Meridionale. Con l'elezione di Rodrigo Duterte alla presidenza delle Filippine, tuttavia, la linea dura di Benigno Aquino III è praticamente evaporata. La richiesta di arbitrato internazionale presentata da Manila nel 2013 si è così svuotata di significato e la relativa sentenza emessa dalla Corte dell'Aja nel luglio 2016 contro Pechino resta un atto meramente formale. Anche in Vietnam, la riconferma di Nguyễn Phú Trọng alla Segreteria Generale del Partito Comunista ed il tramonto politico dell'ex primo ministro Nguyễn Tấn Dũng hanno permesso di smorzare le tensioni degli ultimi anni e di incanalare nuovamente le relazioni sino-vietnamite sui binari dell'Accordo delle Sedici Parole d'Oro, sancito nel 1999 per garantire «stabilità a lungo termine, buon vicinato, fiducia reciproca e cooperazione a tutto tondo». Allo stesso modo, anche gli altri attori del Sud-est asiatico - coinvolti poco (Malesia e Brunei), pochissimo (Indonesia) o per nulla (Singapore, Thailandia, Laos, Myanmar e Cambogia) nelle dispute relative al Mar Cinese Meridionale - mostrano l'intenzione di risolvere pacificamente qualsiasi contesa nel più alto interesse della stabilità politica della regione, anche per tutelare gli investimenti e il commercio con quello che - dati alla mano - è ormai il primo partner estero indiscusso dell'area ASEAN.
Resta, invece, l'ostilità degli Stati Uniti malgrado la diversa modalità di approccio rispetto al passato. La nuova amministrazione Trump ha messo in evidenza un atteggiamento verbalmente aggressivo, diretto e senza fronzoli, ma quasi sempre in risposta ad iniziative o azioni altrui e senza seguire un canovaccio preciso, dando spesso l'impressione di procedere a lume di naso, dalla Siria al Venezuela, dalla Corea all'Ucraina. Nella regione Asia-Pacifico, in particolare, Washington, con il ritiro unilaterale dal Partenariato Trans-Pacifico (TPP), ha di fatto abdicato al ruolo di influenza politica e commerciale che Barack Obama e Hillary Clinton avevano pensato per contenere la Cina secondo lo schema del Pivot to Asia, senza tuttavia rinunciare alle provocazioni militari nei confronti di Pechino.
Prende corpo, inoltre, il sospetto che Washington stia segretamente sostenendo anche le recenti azioni di sconfinamento dell'esercito indiano nell'Altopiano del Doklam, un territorio cinese ma rivendicato dal Bhutan. Il dietrofront di Narendra Modi rispetto all'iniziativa Belt and Road, prima accolta con favore ed ora vista con sospetto, e le mai sopite frustrazioni politiche, economiche ed infrastrutturali di Nuova Delhi nei confronti del vicino cinese stanno giocando un ruolo nello scontro, ma non è da escludere che dietro l'atteggiamento ostile del governo indiano possa esserci la longa manus del Pentagono.
 
Penisola Coreana: evitare la catastrofe
«Godere della pace è la felicità del popolo ma proteggere la pace è responsabilità dell'esercito del popolo», ha osservato Xi Jinping lo scorso primo agosto, ricordando ai presenti che il mondo non è del tutto pacificato e che la pace è un bene da salvaguardare. La diplomazia cinese pare porsi con questo spirito anche verso la questione coreana. Pechino ha più volte richiamato alla razionalità e alla responsabilità sia Washington che Pyongyang, parimenti accusate di voler alzare i toni dello scontro e di mettere a repentaglio la sicurezza regionale.
I test missilistici di Kim Jong-un e le minacce di Donald Trump stanno aumentando il livello di tensione e di militarizzazione della Penisola Coreana. Il presidente sudcoreano Moon Jae-in si è recentemente affermato alle elezioni proponendo un programma di politica estera legato al recupero della cosiddetta Sunshine Policy, basata sul riavvicinamento e sul dialogo tra le due Coree. Tuttavia, questi buoni propositi rischiano di tramontare se la situazione non si placherà.
D'altra parte, la delusione mostrata da Trump nei confronti di Xi Jinping ha poco senso. L'aiuto richiesto dal presidente americano a quello cinese durante il vertice bilaterale di Mar-a-Lago è stato evidentemente interpretato in modo profondamente diverso da Pechino. Pensare che la Cina possa intromettersi nelle dinamiche di potere nordcoreane, o addirittura favorire un regime-change che detronizzi Kim Jong-un, è infatti una richiesta che si scontra non solo col diritto internazionale ma anche con i principi della dottrina di politica estera cinese, fondata sulla non-interferenza negli affari interni degli altri Stati.
Ci si chiede da più parti cosa farebbe la Cina se Kim Jong-un ordinasse un attacco preventivo contro l'Isola di Guam, protettorato statunitense nel Pacifico, come minacciato alcuni giorni fa, o se invece fosse Donald Trump ad ordinarlo contro la Corea del Nord, come paventato nei giorni scorsi. È ancora in vigore un Trattato di Mutua Assistenza tra Pechino e Pyongyang, firmato nel 1961 dagli allora presidenti Mao Zedong e Kim Il-sung, valido almeno sino al 2021 quando, a meno di cambiamenti o decisioni contrarie, si rinnoverà automaticamente per altri venti anni. Tuttavia, secondo diversi analisti militari cinesi, una definitiva affermazione della Corea del Nord quale potenza nucleare potrebbe cambiare le condizioni e spingere la Cina a restare neutrale. Intervistato lo scorso aprile dal South China Morning Post, principale quotidiano di Hong Kong, il colonnello in pensione Li Jie aveva detto che «è difficile dire come la Cina potrebbe supportare militarmente la Corea del Nord in caso di guerra, dal momento che Pyongyang sta sviluppando armi nucleari, un aspetto che potrebbe aver già violato il trattato tra i due Paesi». Se invece gli Stati Uniti dovessero attaccare per primi, è molto probabile che la Cina farebbe valere tutti i mezzi a sua disposizione per fermare sul nascere quella che sarebbe un'autentica catastrofe a pochi chilometri dai suoi confini.
In questo senso ha contribuito a fare chiarezza un editoriale del Global Times, tabloid in lingua inglese del Quotidiano del Popolo, dal titolo Reckless game over the Korean Peninsula runs risk of real war, pubblicato lo scorso 10 agosto. «Pechino non riesce a convincere Washington o Pyongyang a tornare sui propri passi stavolta», recita l'editoriale, che continua: «È necessario chiarire la posizione cinese a tutte le parti in gioco e far capire loro che quando le loro azioni mettono a repentaglio i suoi interessi, la Cina risponderà con fermezza».
 
 
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia
 
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